24 ottobre 2022 17:45

La carriera degli Arctic Monkeys ormai sembra seguire due traiettorie quasi opposte: quella dal vivo li porta a suonare in posti sempre più grandi – il loro prossimo tour, oltre alle grandi arene e ai festival, prevede tre date consecutive, tutte esaurite, all’Emirates stadium di Londra. In studio, invece, la band originaria di Sheffield insegue la via dell’intimismo e somiglia sempre di più a un progetto solista del cantante Alex Turner.

Era successo già nello splendido (e troppo sottovalutato) Tranquillity Base Hotel & casino del 2018, un lavoro sorprendente, soprattutto perché arrivato a poca distanza dal successo di AM, il disco che ha permesso al gruppo di conquistare anche il pubblico statunitense. Invece che capitalizzare quel successo con un AM parte 2, Turner ha virato verso il pop psichedelico, costruendo i brani sul pianoforte più che sulle chitarre e su arrangiamenti quasi lounge. Tranquillity Base Hotel & casino inoltre è stato il primo concept album nella carriera degli Arctic Monkeys ed era ambientato in un resort di lusso sulla Luna raccontato dal punto di vista di vari personaggi, come il cantante della band residente dell’albergo nel brano di apertura Star treatment (per me in assoluto una delle canzoni più belle degli ultimi anni). The car, il settimo disco in studio del quartetto britannico pubblicato il 21 ottobre, non torna indietro, anzi, rilancia.

Come in un film
Dal punto di vista sonoro, The car, che deve il titolo alla sua copertina (una foto scattata dal batterista Matt Helders), ma anche all’immaginario americano per eccellenza, quello nostalgico delle automobili, prosegue sulla scia di Tranquillity Base Hotel & casino, anche se aggiunge alla miscela una dose massiccia di archi, stavolta quasi onnipresenti negli arrangiamenti, e vede Alex Turner vestire definitivamente i panni del cantante confidenziale che racconta storie d’amore patinate sullo sfondo di atmosfere cinematografiche: a tratti sembra di essere dentro a un noir in bianco e nero o a un film di James Bond. E quando gli elementi s’incastrano alle perfezione il disco sale di livello: succede nell’iniziale There’d better be a mirrorball; in The car, un pezzo che piacerebbe ai Calibro 35; in Body paint, il perfetto compromesso tra i vecchi e i nuovi Arctic Monkeys, e nella cupa Sculptures of anything goes, dove gli Arctic Monkeys sembrano omaggiare l’idolo Nick Cave. Altre volte invece, come in Big ideas o nel funk annacquato di I ain’t quite where I think I am, l’atmosfera cinematografica suona forzata e ci si annoia un po’.

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Ci sono però delle chicche anche verso il finale, come la semiacustica Mr. Schwartz, ritratto di un ambiguo damerino alcolizzato, un piccolo saggio di scrittura da parte di Turner. Impressione che resta anche dopo la conclusiva Perfect sense, che chiude il sipario citando Riccardo Plantageneto, duca di York e pretendente al trono d’Inghilterra che nel quattrocento fu una delle persone a innescare la Guerra delle due rose.

Si ha l’impressione che dietro tutti questi personaggi spavaldi e donnaioli, come sempre, si nasconda lo stesso Alex Turner, che esorcizza la sua timidezza nelle canzoni, mettendo in scena un gioco d’ombre rivolto al suo pubblico, come quando in The car canta come si sente ridicolo “con in mano la chitarra del bisnonno” della sua ragazza/moglie: da una parte rivendica la svolte vintage degli Arctic Monkeys, dall’altra ammette le sue insicurezze.

A The car manca forse quel pizzico di follia fantascientifica che rendeva Tranquillity Base Hotel & casino un disco da ricordare, e a tratti Turner sembra voler fare le cose seguendo troppo il manuale del bravo autore di canzoni, peccando di originalità più del solito. Eppure di autori pop così raffinati e capaci di parlare a tante persone senza scadere mai nella ruffianeria ce ne sono veramente pochi in circolazione.

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