06 settembre 2002 00:00

Forse l’11 settembre ha cambiato soprattutto il nostro rapporto con l’informazione. Forse ha ragione Ian McEwan: “Fa parte dei tempi questo imperativo a sentire come vanno le cose del mondo, a unirsi alla totalità del pubblico, a una comunità fondata sull’ansia. Certe scene mostruose e spettacolari hanno conferito un valore di portata diversa all’informazione. La possibilità che si ripetano è come un filo che tiene legati i giorni. Il parere del governo – che un attacco a una città europea o americana sia inevitabile – non è solo un disconoscimento di responsabilità, ma anche una promessa esaltante. Tutti lo temono, ma a livello di inconscio collettivo esistono anche un anelito oscuro, un perverso desiderio di castigo e una curiosità blasfema. Come gli ospedali hanno i loro piani di emergenza, così le tv si tengono pronte a trasmettere, e il pubblico si mantiene in attesa. Più ingente, più grave la prossima volta. Fa’ che non debba succedere. Ma fa’ anche che io veda ogni cosa mentre si verifica, e da ogni angolazione possibile, e fa’ che sia tra i primi a saperlo”.

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