01 dicembre 2011 00:00

Il 22 novembre 1963 era una splendida giornata a Dallas. Nei filmati e nelle foto, la folla che saluta il presidente Kennedy è in maniche di camicia o in giacca. Nessuno ha l’ombrello. Tranne un uomo. Si trova sulla traiettoria della pallottola che uccide Jfk. È in piedi e tiene in mano un ombrello aperto. “The umbrella man” diventa subito il protagonista delle più incredibili teorie del complotto. C’è chi arriva a sostenere che è lui il vero assassino di Kennedy, con un complicato marchingegno nascosto nell’ombrello. Finché quindici anni dopo, rispondendo all’appello di una commissione parlamentare, Louie Steven Witt esce allo scoperto e racconta la sua storia. Quell’ombrello aperto era in realtà un gesto di protesta, e non contro Jfk, ma contro il padre, l’ambasciatore Joseph P. Kennedy, che aveva appoggiato la politica di appeasement del premier britannico Neville Chamberlain, famoso appunto per l’ombrello che portava sempre con sé.

Intervistato da Errol Morris per il New York Times, Josiah “Tink” Thompson, autore della più approfondita inchiesta giornalistica sull’assassinio di Jfk, racconta: “Se c’è un fatto che pensi sia davvero sospetto, un fatto che secondo te è evidentemente indice di qualcosa di molto oscuro, allora è meglio che lasci perdere”. Perché la vera spiegazione può essere così assurda, e al tempo stesso così banale, che arrivarci da soli è quasi impossibile. Quarantotto anni dopo, la storia dell’uomo con l’ombrello serve ancora da lezione per tutte le teorie del complotto del mondo.

Internazionale, numero 926, 2 dicembre 2011

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