20 febbraio 2015 11:02

David Carr, il giornalista del New York Times morto a 58 anni la sera di giovedì 12 febbraio nella redazione del suo giornale, lasciava il segno in tutti quelli che incontrava. Chi l’ha visto a Ferrara, al festival di Internazionale, ricorderà una persona fuori del comune. Alto, magro, il suo corpo e la sua voce roca portavano i segni di un tumore e della dipendenza dall’alcol e dal crack, di cui si era liberato e che aveva raccontato in un’autobiografia, The night of the gun. Appena arrivato a Ferrara con la moglie Jill, si era stupito per l’efficienza della rete ferroviaria italiana rispetto a quella statunitense e per l’inefficienza della rete tecnologica: in albergo aveva combattuto per ore prima di riuscire a collegarsi a internet.

Al New York Times si occupava di mezzi d’informazione e di industria editoriale. Il suo modo di scrivere rifletteva la sua personalità e il suo modo di stare al mondo. Era curioso e generoso (“Ti dicono sempre che devi guarire per il tuo bene, ma ho smesso di preoccuparmi solo dei cazzi miei quando mi sono ricordato che esistono anche i cazzi degli altri”). Era sempre disponibile: rispondeva a tutte le email che riceveva, e certamente ne riceveva tante (“Quando mi chiedono come mi guadagno da vivere, qualche volta sono tentato di dire che scrivo email”). Aveva un grande senso dell’umorismo. Era critico, ma mai cinico. La sua scrittura era precisa, chiara, semplice, il suo stile personale.

Aveva una dote rara: diceva sempre quello che pensava, in modo diretto e spesso brutale, senza però mai ferire. Era spietato innanzitutto con se stesso e inflessibile con il suo giornale, che pure amava e rispettava e per il quale ha scritto 1.776 articoli in tredici anni. Per molti giornalisti è stato un mentore, un consigliere, un amico. In rete si trovano tanti video di suoi interventi, discorsi e lezioni. Chiunque voglia fare il mestiere di giornalista dovrebbe cominciare da lì. Non stupisce che per l’ultimo saluto a David Carr l’immensa sala centrale del grattacielo del New York Times costruito da Renzo Piano fosse piena come lo è solo quando vengono annunciati i premi Pulitzer.

Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2015 a pagina 3 di Internazionale, con il titolo “Segno”. Compra questo numero | Abbonati

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