05 settembre 2019 12:50

“Ecco le nuove telecamere installate in via di Brozzi. Solo cinque anni fa erano 150, oggi siamo a quota 818 in tutti i quartieri. L’obiettivo è rendere Firenze la città più videosorvegliata d’Italia, perché la sicurezza dei cittadini viene prima di tutto!”. Faceva una certa impressione leggere a metà agosto il tweet di Dario Nardella, sindaco di Firenze, proprio nei giorni in cui a Hong Kong i manifestanti usavano i laser per confondere i sensori delle videocamere di sorveglianza e abbattevano i pali su cui erano montate.

È chiaro che c’è molta propaganda: diversi studi affermano che la videosorveglianza non aiuta a ridurre i reati. Nel caso di Hong Kong, alcuni spiegano che le videocamere davvero pericolose per la privacy sono quelle meno visibili. Ma quando si combinano con i software di riconoscimento facciale, sempre più precisi grazie ai progressi dell’intelligenza artificiale, la questione diventa davvero preoccupante. In Cina queste videocamere sono ovunque: negli aeroporti, ai bancomat, nelle scuole.

Maja Pantic, dell’Imperial college di Londra, spiega tra l’altro che la quantità di dati elaborata dagli algoritmi è ormai talmente grande che gli stessi sviluppatori non riescono più a capire in che modo i software ottengono risultati così efficaci. Se poi il riconoscimento facciale è unito a strumenti come gli smartphone, che tracciano spostamenti, pagamenti e conversazioni, ecco un mezzo di controllo straordinario e, nelle mani di regimi autoritari, un potente strumento di oppressione.

A chi dice che il problema non lo riguarda, bisogna ricordare le parole di Edward Snowden, l’ex informatico della Cia che ha reso pubblici i programmi di sorveglianza di massa statunitensi e britannici: “Sostenere che non si è interessati al diritto alla privacy perché non si ha nulla da nascondere è come affermare che non si è interessati alla libertà di espressione perché non si ha nulla da dire”.

Questo articolo è uscito sul numero 1323 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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