10 novembre 2011 00:00

Il direttore del New York Times Magazine, Hugo Lindgren, racconta che nel 1997, quando fu assunto dalla rivista New York, trovò nella bacheca del suo nuovo ufficio un regalo di Kurt Andersen, il direttore che era stato appena licenziato. Era un foglio con un elenco di parole in ordine alfabetico, qualche annotazione tra parentesi e un titolo: “Words we don’t say”.

Erano 35 parole e modi di dire che Andersen non voleva mai vedere pubblicati sul suo giornale. Molte erano espressioni familiari: per esempio hubby, maritino, un’abbreviazione di husband. O flicks invece di movie, più o meno il nostro cine invece di cinema. C’erano locuzioni diffuse ma un po’ vaghe, come New York’s finest, il meglio di New York. E parole straniere, come fin de siècle.

Anche la nostra redazione ha le sue parole proibite: iniziare, agiato, fuoriuscire, giungere, giustiziare, media (mezzi d’informazione), membro (appartenente a un gruppo) sono solo alcune. L’ultima parola della lista di Andersen era zeitgeist, “spirito dei tempi” in tedesco. Google l’ha scelta per il suo Google Zeitgeist, la classifica delle parole più cercate su internet.

E due anni fa stava per diventare il nome di una sezione di Internazionale. Ma alla fine abbiamo scelto Pop.

Internazionale, numero 923, 11 novembre 2011

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