21 ottobre 2010 00:00

Michel Houellebecq, La carta e il territorio

Bompiani, 360 pagine, 20,00 euro

Dopo un esordio folgorante e opere ripetitive, Houellebecq sembrava tornato al suo meglio, e molto maturato, con questo nuovo romanzo. La lettura delle prime due parti ci ha quasi esaltato: un Flaubert del nostro tempo, siamo giunti a dirci, tra L’educazione sentimentale e Bouvard e Pécuchet; un gelido referto sulla civiltà in cui viviamo, con conoscenza perfetta della parte borghese e non dell’altra, dei meccanismi e in particolare del mondo degli artisti. Dentro questo gioco, anche se ai suoi margini.

Qui mette in scena anche se stesso, alter ego del protagonista, in tutta la sua antipatia, anche da morto, ma per narcisismo e non per lucidità su di sé (come di recente in Coetzee). Si fa anzi ammazzare nell’ultima parte del libro, che imita banalmente i noir appena rilevandone la banalità dominante.

Vede, esamina, capisce e sa raccontare un sacco di cose piccole e grandi, fissa come l’arido protagonista fotografo-pittore di enorme successo e tremendamente solo una mappa esauriente e convincente dell’epoca che il mondo attraversa, la civiltà post industriale e i suoi meccanismi, con centro la Francia, ma di essi non rinuncia a profittare, troppo dentro le sue regole e la sua ansia di successo.

Sfiora così il capolavoro, ma se lo nega (ci si chiede se ne è cosciente). Il suo freddo talento ci aiuta a vedere, ma niente affatto a cambiare.

Internazionale, numero 869, 22 ottobre 2010

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