24 marzo 2011 00:00

Christopher Isherwood, La violetta del Prater

Adelphi, 136 pagine, 16,00 euro

I romanzi di Isherwood sugli anni trenta (Il signor Norris se ne va e Addio a Berlino), sulla Germania di Hitler e la stolida Europa, sono tra i più illuminanti e, lo si dice con disagio, divertenti. Aiutano a capire l’epoca meglio delle ricostruzioni storiche e ideologiche, e ne mettono in rilievo le contraddizioni con grande umorismo, ma con il senso fortissimo della tragedia incombente, la realtà del nazismo, l’annuncio dei massacri che seguiranno di lì a poco.

La violetta del Prater sembra la più scanzonata e lieve delle perlustrazioni – con un Io narrante scoperto e sinceramente autobiografico – del mondo del cinema di quegli anni, in una Londra che ama le operette e accoglie volentieri i maestri europei.

Il giovane Isherwood sa di Germania ed è chiamato a collaborare alla sceneggiatura di un film diretto da Friedrich Bergmann, un geniaccio inquieto che sa cosa il cinema può dare, come può illudere e piacere.

Ma siamo nei giorni del golpe in Austria, e Bergmann a Vienna ha moglie e figlia e non si fa nessuna illusione sulla natura del nazismo e le sue chances di vittoria. È il contrasto tra pratica frivola e coscienza tragica a fare di questo romanzo un gioiello, non tanto per ciò che dice del cinema, come vorrebbe Adelphi, quanto per ciò che dice della disattenzione di ieri e di oggi agli tsunami della storia.

Internazionale, numero 890, 25 marzo 2011

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