29 aprile 2017 14:58

Raoul Peck, regista nero haitiano, è l’autore di molti cortometraggi seriamente impegnati nel discutere la storia dei neri, non solo del suo paese. Suo è un Lumumba del 2010 che ci piacerebbe molto vedere, memori delle difficoltà e delle tragedie della decolonizzazione africana. Ma suo è anche un film a soggetto, che si spera di poter vedere prima o poi, su The young Karl Marx.

Candidato all’Oscar per il miglior documentario, non l’ha vinto, e vien da dire ovviamente, pensando alla immensa ipocrisia che attraversa quella cerimonia e in genere il mondo hollywoodiano e il mondo della cosiddetta comunicazione, che sarebbe più opportuno chiamare propaganda. Molti i neri con l’Oscar, quest’anno, compreso il film considerato migliore, ma viene più che il dubbio che continui a trattarsi, avrebbero detto Malcolm X o James Baldwin, della categoria degli “zii Tom”. Viene da dirlo anche a noi ma, poiché bianchi, con minor disprezzo del loro.

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Il film di Peck I am not your negro non è eccezionale dal punto di vista formale, ma lo è per il personaggio che racconta, le cui parole, lette da un attore di qualità come Samuel Jackson, davvero “bucano lo schermo” con la loro logica stringente da grande saggista, con la loro interpretazione della civiltà statunitense e, diciamolo, della sua basilare ingiustizia, della sua fondamentale protervia e incapacità di mettersi in discussione salvo che in isolati esempi etici e intellettuali alti e altissimi, come è il caso di Baldwin. Solidissimo intellettuale che in Italia non è masi stato considerato come merita, dimostra nelle sue analisi di conoscere come pochi le più solide fatte prima di lui su quella civiltà, nate dal suo stesso ventre (Riesman, Wright Mills, Wilson, Fiedler e pochi altri).

_I’__am not your negro_, distribuito meritoriamente, e disordinatamente ma non per loro colpa, da Wanted e Feltrinelli Real Cinema (e si spera sia presto disponibile il dvd) somiglia a tanti film o lavori televisivi che ricostruiscono la vita di un personaggio importante mescolando testimonianze, foto, spezzoni documentari e di film, ma si distingue da quelli per la solidità delle argomentazioni e per il rispetto del personaggio. Diciamo meglio: per la forza e per la radicalità del personaggio.

Una storia americana
Stiamo parlando di James Baldwin, romanziere e drammaturgo nero statunitense (1924-1987) però più importante, ieri e oggi, per la sua opera di saggista e di polemista che per quella del narratore. E peraltro le sue narrazioni hanno sempre molto del saggio e della polemica, nel bene e nel male. Il suo romanzo migliore è Gridalo forte, un titolo esemplare che si collega direttamente alla formidabile produzione saggistica: Mio padre doveva essere bellissimo, Nessuno sa il mio nome (che ricorda nel titolo l’Uomo invisibile di Ralph Ellison, il più grande romanzo scritto da un afroamericano e uno dei più grandi romanzi di tutto il novecento) e La prossima volta il fuoco, un titolo minacciosamente apocalittico.

Il giovane Baldwin, nero e omosessuale, rigorosamente contrario a ogni forma di razzismo (smise clamorosamente di collaborare a una rivista che pagava più che bene quando vi si pubblicarono degli articoli antisemiti), negli anni cinquanta era fuggito dagli States per andare a Parigi (lo racconta in La camera di Giovanni, storia d’amore tra il protagonista, lui stesso, e un cameriere italiano). Fin quando non tornò, sollecitato dall’acuirsi in patria della rivolta nera e del razzismo bianco, negli anni che furono anche della rivolta studentesca, degli hippies, di Julian Beck e Bob Dylan, e dell’ambigua presidenza di Kennedy.

Il film di Raul Peck parla della sua azione in quegli anni, del Baldwin pubblico e non del Baldwin letterato, servendosi come traccia di un testo inedito e incompiuto di James, Ricorda questa casa, che si spera Feltrinelli pubblichi presto riproponendo anche gli altri saggi-pamphlet. Di fatto, è un pezzo di storia degli Stati Uniti che ci troviamo davanti, letta con la passione e con l’indignazione ma anche con la grande intelligenza di un intemerato protagonista.

Se Malcolm X ricordava nell’autobiografia che ne raccolse Alex Haley (autore di Radici) che da bambino al cinema s’identificava in Tarzan e non nei neri suoi nemici o servi, Baldwin s’identificava in John Wayne e non nei pellerossa che faceva fuori. E, tra parentesi, l’uso di brani di film di ieri che mostrano i modi in cui i neri vi erano rappresentati, è una perfetta lezione della malafede o della falsa coscienza anche di registi eccelsi come John Ford. Baldwin dice lo scandalo, per lui, di una società così ipocrita da eleggere a suoi emblemi, come modelli di insensata purezza, le immagini di Gary Cooper, eroe di un americanismo senza macchia e senza paura, e di Doris Day, perfetta robottina middle-class deodorata e asessuata. Una cultura “immatura” e “che considera perfino l’immaturità come una virtù”.

Sono i bianchi ad avere inventato il nero e sarebbe loro dovere interrogarsi sul perché

Il coraggio persuaso di Baldwin – che era figlio, non va dimenticato di un pastore protestante, e si era nutrito di etica sociale e di fratellanza cristiana – evoca i caineschi omicidi “di stato” di tre grandi lottatori che egli ha conosciuto e amato, Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King. Ma ricorda (e il film ce lo mostra) le vittime senza nome della polizia con immagini che ricordano cupamente quelle dei disordini recenti e della abituale protervia poliziesca e bianca a danno dei neri, ma soprattutto ragiona e riflette sull’essenza della civiltà statunitense, con una radicalità convinta e convincente, che può ricordare a tratti le considerazioni di Susan Sontag sulla “peste” che quella civiltà ha diffuso o ha imposto nel mondo. È questa lucidità che riesce ancora a provocarci, e a tratti a sconvolgerci, avvolti quotidianamente come siamo e abbiamo voluto essere in un americanismo che ha inciso profondamente nella nostra psiche (gli americani ci hanno colonizzato l’inconscio, diceva un personaggio di Nel corso del tempo, un film di Wenders ancora degno di analisi e di amore, ché poi anche lui…).

Possiamo riassumere questa lucidità in alcune proposizioni tra le tante acutissime che Baldwin – a suo modo storico, sociologo e antropologo ma sulla propria pelle – ci consegna nel suo ultimo testo: il mondo non è bianco e non lo è mai stato, “bianco” è una metafora del potere e perfino un modo di “descrivere le banche”; la storia dei neri degli Stati Uniti è la storia stessa degli Stati Uniti “e non è una bella storia”; sono i bianchi ad avere inventato il nero e sarebbe loro dovere interrogarsi sul perché.

Ciò nonostante, chiude Baldwin, chi è vivo non può e non deve essere pessimista.

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