23 marzo 2018 15:14

Attenzione, questo articolo contiene spoiler.

Un piccolo capolavoro. Ho avuto occasione di vedere La terra dell’abbastanza, il film di due fratelli romani non ancora trentenni, Damiano e Fabio D’Innocenzo, che è stato presentato a Berlino dove, mi pare, non ha vinto un bel niente.

Ormai è una consuetudine, le giurie dei festival e dei premi sono una delle iatture del cinema di questi anni, miscellanee corporative più attente alla superficie, alla moda, ai poteri, piuttosto che alla qualità. Mi è sembrato un film assai bello, un film sorprendente. Spero che trovi presto un distributore e possa esser visto da tutti, soprattutto dai pigri spettatori di oggi, non tanto quelli della terza età che ancora vanno nelle sale, piuttosto rintronati, quanto dai giovani, che spesso – non sempre, per fortuna – sono tali solo per l’anagrafe e agiscono da infanti prigionieri della ragnatela di internet.

Racconta di due amici, del loro contesto familiare sfasciato, della periferia in cui vivono luminosa e gelida allo stesso tempo (Roma, Ponte di Nona), del loro cinismo consono all’epoca e all’Italia di oggi, proprio quella delle elezioni del 4 marzo 2018.

Vite fragili
Una generica scuola professionale alle spalle, e un’esperienza diretta non di scarsità (coperti i bisogni essenziali) ma lontana dalla ricchezza. Siamo insomma in una “terra dell’abbastanza” in cui si agita il sogno del superfluo, il sogno di un’abbondanza che per tanti è realtà e che tutta una cultura continua a esaltare, dipendendone.

L’ambiente non ha dato ai due amici del film nessuna solida sostanza morale e civile. In una delle loro notti brave, che di bravo hanno in realtà poco e monotonamente si ripetono, investono e ammazzano un passante, che si scopre essere un rivale di una banda locale che prospera con la droga e la prostituzione.

Il padre di uno dei ragazzi esulta: devono dire che sapevano chi investivano e ammazzavano e la banda gliene sarà riconoscente, come in effetti avviene. Il sogno dei due giovani sembra avverarsi, dall’abbastanza all’abbondanza, e una vita spericolata e attraente, che però ha i suoi costi, e i due precipitano in una catena di omicidi e di abiezioni che mette alla prova la loro pur fragile morale, dotata ancora di un generico senso del giusto, di un qualche fondo di disgusto nei confronti della violenza gratuita e della sopraffazione.

Cadono, precipitano, perché nonostante tutto hanno ancora un residuo di sensibilità e di inquietudine, che li indeboliscono, li tradiscono, li perdono. Finiscono male, finiscono ammazzati tutt’e due, il secondo, il più aggressivo ma anche il più complesso, quando sta per denunciare e denunciarsi alla polizia, dopo la morte dell’amico.

I fratelli D’Innocenzo precisano un modo di raccontare e raccontarci che è forse il più difficile, oggi, da frequentare

L’ultima scena del film vede a confronto il padre dell’uno e la madre dell’altro: la vita continua, in un “abbastanza” (“quello che c’è” è l’ultima battuta, riferita a cosa la donna darà da mangiare alla sorellina del ragazzo morto) che rinvia alla precarietà dell’insieme, all’amoralità del contesto (bravi anche nel dirigere gli attori, professionisti o nuovi, i D’Innocenzo ne lanciano due notevolissimi, specialmente Matteo Olivetti, che ha la forza di un Marinelli o di un Liberati).

Il film dei D’Innocenzo non è però importante solo per il ritratto che dà del nostro tempo e della sua più intima precarietà, malvagità, miseria: è importante per il modo in cui lo fa. In sostanza, nel giovane cinema italiano – che è a ben vedere straordinario, e ben al di sopra di quel che il sistema culturale e politico del paese merita di avere – i fratelli D’Innocenzo si distinguono per la loro alta e imprevista professionalità, e aprono o precisano un modo di raccontare e raccontarci che è forse il più difficile, oggi, da frequentare.

Quindi, mi pare di poter distinguere tre modi di raccontare il presente, di “fare cinema”, da parte dei registi italiani bravi di oggi, quelli che sono pur sempre ai margini del mainstream e del cinema ufficiale, che possiamo ben definire paratelevisivo, romanesco, e politicamente ed economicamente parassitario, e da cui quasi mai si ricevono delle sorprese.

Ci sono registi che praticano un cinema che dà nuova vita a una sorta di nuovo realismo poetico di alto livello (per esempio, Pietro Marcello, Alice Rohrwacher e altri); ce ne sono che insistono, spesso con ottimi risultati, in una tradizione che possiamo chiamare neorealistica – di pedinamento del personaggio, di immersione in una realtà specifica – come, ultimo egregio esempio, Jonas Carpignano.

Una terza strada è quella di un “cinema d’autore” attentissimo ai valori tradizionali e forti del cinema: una sceneggiatura coesa e controllata e importante, dal focus sul personaggio alla nitida precisione “geometrica” dei grandi spazi, una fotografia netta e lucida, un montaggio serrato e attento all’essenziale, la musica poca e tenuta a bada perché non deve surrogare a un’emozione fiacca o inesistente.

Siamo in definitiva, questa l’impressione più forte che un vecchio critico può ricavare dal film, nell’aura di un cinema americano degli anni d’oro, non quelli lontanissimi del bianco e nero ma quelli degli anni settanta: un modo di girare che è appartenuto a molti grandi, prima che si lanciassero in una autorialità matura e rivendicata, e penso ai primi film di Kubrick o di Peckinpah, ma soprattutto alla misura, al controllo, all’attenzione alla reattività dello spettatore di un Don Siegel o altri come lui, per finire, perché no?, con il primissimo Tarantino, prima che si tarantinasse da solo e con l’ausilio dei suoi fan.

I D’Innocenzo sembrano avere delle ambizioni e una personalità molto diverse e, sia chiaro, non sono degli imitatori, hanno un proprio mondo da esplorare e da mettere a fuoco. Soprattutto, la loro non è una cinefilia da Dams o da inserto culturale alla Alias o, peggio, da blog e social network.

Hanno alla base una spinta etica e conoscitiva che cerca una comunicazione diretta con un pubblico dalla coscienza addormentata o corrotta, cerca di ridestare le emozioni e l’intelligenza, la capacità di ragionare – rifiutando la stoltaggine e ricercando l’intelligenza – su ciò che vede o gli si fa vedere, che sente o gli si fa sentire, che legge o gli si fa leggere, che pensa o gli si fa pensare.

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