02 dicembre 2010 09:16

Dopo il primo Sciocchezzaio libresco, prosegue l’opera collettiva di censimento (e, ove possibile, di demolizione) dei principali luoghi comuni sui libri e sulla lettura. Ringrazio i molti che hanno contribuito con le loro idee e osservazioni: questo secondo sciocchezzaio si deve in gran parte al loro aiuto.

I libri sono cibo per la mente. *Suona bene, vero? Ma spesso nasconde un indiscriminato invito alla bulimia letteraria. Mancano i necessari corollari dietologici (e tossicologici): certi libri sono bacche velenose, e a legger tutto come figli dei fiori si finisce come il buontempone di *Into the Wild con i suoi semi di patata ammuffiti. Per parte mia, ordino le mie letture in uno spettro che va dai libri-crostaceo (in genere filosofi tedeschi, dove bisogna lottare con pervicaci corazze ed esoscheletri per arrivare, sfiniti, a un minuscolo gheriglio di polpa rosa) ai libri-passato di verdure (sono quelli che fanno vanto del loro stile scorrevole, e che non incontrano resistenza alcuna nella loro marcia dentro il nostro organismo). In breve, gli indigesti e i predigeriti. L’idea di quest’ordine mi venne da adolescente quando mio padre, vedendo sulla mia scrivania La società aperta e i suoi nemici di Karl R. Popper e un libro di qualche effimero saggista francese, forse il Baudrillard senile, mi domandò: che cosa ci fanno l’uno accanto all’altro una bistecca e un soufflé?

Non puoi giudicare un libro dalla copertina. Lo diceva anche il dottor Frank-N-Furter, il “dolce travestito” del Rocky Horror Picture Show: Don’t judge a book by its cover. E invece, altroché se possiamo giudicare. Siamo qui in presenza di un caso particolare di un luogo comune più generale, quello secondo cui “l’abito non fa il monaco” (ho provato a confutarlo qui). La veste editoriale è una miniera di informazioni, ed è rarissimo che in questo il nostro fiuto ci tradisca. Per parte mia, evito accuratamente, per esempio, i libri di ottocento pagine con il titolo a rilievo in oro e magari la sagoma di un gabbiano stagliata contro un cielo al tramonto; oppure i romanzi che hanno in quarta di copertina la foto di qualche signora americana dentona dai capelli cotonatissimi (di cui si spiega, nel risvolto, che dirige una scuola di scrittura creativa nel Wyoming). O i libri freschi di stampa che esibiscono una fascetta dove è scritto, a caratteri cubitali, “nove edizioni in due giorni”, se non addirittura “un grande classico”. Un altro genere di cui diffidare a colpo d’occhio, oggi, è quello dei libri-confessione con donna in chador o bambino-soldato in copertina e titolo in prima persona, del tipo Io, schiava. Ma l’intuito non tradisce mai, o quasi. Se non mi credete, fate un esperimento: lanciatevi in una corsa forsennata in una grande libreria, un po’ come i tre ragazzi di Bande à part tra le sale del Louvre. Con la coda dell’occhio, sarete in grado di capire infallibilmente dov’è che vale la pena fare una sosta.

I libri devono essere vissuti. Lo diceva sempre una mia amica che comprava di proposito libri usati e abusati, con dentro segnacci a penna rossa, macchie color castagna di imprecisati beveraggi, conti della spesa sul frontespizio, casette disegnate a pennarello dal bimbo di casa e frasi come “Ha telefonato l’ing. Cominetti Massena, richiamarlo”. Potrei osservare che leggere e vivere non sono la stessa cosa, che anzi spesso sono i due corni di un dilemma sul modello di “o la borsa o la vita”. Potrei aggiungere che sono i due antipodi di un continuum che va da Mallarmé, per cui tutto ciò che esiste è destinato a finire in un libro, a Rimbaud, che molla carte e calamai per andare a trafficare armi in Abissinia. Potrei dire infine che i libri devono essere letti, e la vita dev’essere vissuta: a ciascuno il suo. Ma la verità è che non ho una vera confutazione di questo luogo comune: è, semplicemente, il mio pregiudizio contro il loro. Va bene che siamo in un’epoca allegra di liberazione dei costumi, ma su questo porto fieramente i baffi neri e la coppola: i libri li voglio illibatissimi.

Certe cose non puoi capirle in un libro, devi conoscerle in prima persona. Applicato al Kamasutra, l’argomento è ineccepibile. Il guaio è che me lo sono sentito obiettare, per lo più, nel corso di animate discussioni sui diritti umani in paesi remoti. “Ma sei mai stato a Cuba? E allora come fai a dire queste cose?”. Il delirante sottinteso del ragionamento era: “La mia settimana a Varadero e le mie impressioni occasionali della vita sul Malecón valgono più dei rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch”. Il corollario, ben più inquietante, è quest’altro: “Come fai a parlar male del Terzo Reich, se non eri a Berlino negli anni Trenta?”. I libri, miei cari, esistono proprio per questo.

Regala un libro, che va sempre bene. Non mi è facile discutere questo luogo comune, perché da anni nessuno osa più regalarmi libri, nel terrore di farmi un doppione. E il guaio è che hanno ragione: avendo perso io stesso qualunque padronanza sulla mia libreria e quel che contiene, i doppioni me li compro da solo (e se è per questo ho anche un triplone). La verità è che i libri hanno, all’ennesima potenza, tutto il valore simbolico che normalmente associamo ai doni. Una mia amica, anni fa, ebbe in regalo dal fidanzato un trapano: a segno che lui non aveva capito granché dei suoi interessi, o quanto meno non se ne curava. Chi sbaglia a regalarci un libro, probabilmente, si è fatto un’idea sbagliata di noi. Ora, immaginate che vi regalino Il cuore e la spada di Bruno Vespa, o uno di quei tomi giganteschi che hanno titoli come Ladri! Farabutti! Infamoni! e contengono liste di proscrizione di tutti i cattivi d’Italia, o il romanzo autobiografico di una tredicenne ninfomane scritto in realtà da un editor cinquantenne che ancora non si è ripreso dalla chiusura di Non è la Rai: ebbene, non sarebbero ottime ragioni per rompere un’amicizia?

I libri non si buttano mai. Ditemi se questo non è un privilegio insensato, che non accetteremmo di accordare a nessun’altra specie merceologica. Tutto si butta: vestiti logori, avanzi di cibi, pile di vecchie riviste, lampadine fulminate, oggetti che ingombrano senza dare nessun beneficio. Ora, in base a quale criterio dovremmo buttare la tarantola vibrante a pile da massaggio che ci hanno venduto al tavolo del ristorante e conservare, invece, uno dei centododici libri di Giampaolo Pansa che hanno la parola “vinti” nel titolo, e che ingombrano molto di più? Per quale ipotetico inverno, formichine, stipiamo cose che non ci serviranno mai? E che se proprio dovessero servirci - ma non ci serviranno, fidatevi - le biblioteche stan lì apposta? “Fanne uno scatolone e mettili in soffitta”, dirà qualcuno. Ma siamo sinceri: chi è mai andato davvero in soffitta a recuperare un libro? La soffitta è come il “periodo di riflessione” quando un amore finisce: una vigliaccheria. “Caro Atlante De Agostini 1992, ti sto scaricando, ma non ho il coraggio di dirtelo in faccia”.

Più libri, più liberi. Un corno. Fate un’escursione a casa mia, o nella casa di qualunque lettore accanito, per constatarlo di persona. Della nostra libertà, i libri se ne fregano. I libri sono l’esercito invasore, il loro Lebensraum - lo “spazio vitale” dei nazisti - è l’aria stessa che respiriamo, e noi siamo i Sudeti o la Polonia. “I libri avanzano nella mia casa, silenziosi, innocenti. Non riesco a fermarli”, scriveva Carlos María Domínguez in La casa de papel. Sono tanti, troppi, premono alle nostre frontiere, si acquattano in tutti gli angoli, torreggiano sul nostro comodino, ci impediscono di camminare senza calpestarli o, peggio, inciamparci. E su noi tutti bibliofili e bibliomani aleggia l’incubo più nero: quello di fare la stessa fine del compositore Charles-Valentin Alkan, che il 30 marzo 1888 fu ritrovato morto nella sua casa, schiacciato dal crollo della sua libreria. Ma anche se non saranno i nostri libri a ucciderci, possiamo star certi che ci sopravviveranno.

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