19 novembre 2012 17:48

Quando la corte è in vacanza (perché una corte marziale dovrà pur prendersi qualche giorno di congedo, in tempo di pace) può capitarle d’imbattersi in qualcosa che la richiami imperiosamente ai suoi obblighi, un’infrazione macroscopica che risvegli i suoi pruriti di giustizia esemplare. Vorrebbe allora convocare d’urgenza il plotone, ma gli artiglieri sono tutti a pancia all’aria a godersi la villeggiatura, e non resta che annotare le generalità del malcapitato e del suo crimine letterario, in attesa del rientro. A farla breve, questa corte a settembre se ne stava allegramente a zonzo al Festival della letteratura di Mantova, e si è intrufolata in un cortile dove lo scrittore Massimo Carlotto teneva una lezione sul suo genere elettivo, il noir. Il suo caso, invero, ci era stato già segnalato. Ad ogni modo, il nostro taccuino riporta due frasi che possono valere come capi d’imputazione. La prima: “Nei romanzi di Agatha Christie l’assassino è sempre il maggiordomo” (risatine generali di approvazione); e la seconda: “Il noir è la letteratura della realtà, racconta il territorio” (pensosi cenni d’assenso dalla platea: ah beh, sì beh).

Ora, non vorremmo spacciarci per esperti, eppure fatichiamo a ricordare un solo romanzo di Agatha Christie in cui l’assassino fosse il maggiordomo; ricordiamo, in compenso, molte sue variazioni ingegnose e magnificamente spericolate sul tema del whodunit: l’assassino è il narratore, l’assassino è il detective, gli assassini sono tutti i personaggi, l’assassino non è un assassino ma un suggeritore di delitti, l’assassino è la vittima del primo tentato assassinio, e altri pirandellismi. L’avvocato d’ufficio di Carlotto (lo nominiamo noi, dunque possiamo anticiparne la strategia difensiva) obietterà che quelle parole non vanno prese alla lettera: era un modo per dire che il giallo classico è irrealistico, che parla di un piccolo mondo tutto compreso tra l’alta borghesia e un’aristocrazia al tramonto, che i suoi personaggi sono figurine di un gioco, che le sue soluzioni sono rassicuranti e garantiscono che l’ordine sociale può essere ristabilito individuando un colpevole e consegnandolo alla polizia. Non sono tesi nuove, per carità, le sosteneva Raymond Chandler sessant’anni fa - con una differenza: Chandler non capiva un tubo di Agatha Christie, ma almeno la leggeva. Ad ogni modo, meno male che a fronte di quei gialli così pervasi dall’ideologia borghese e conservatrice c’è la grande tradizione realista del noir, che riporta il crimine tra le strade e i gangster, illuminando le diramazioni di un Sistema che è marcio alla radice e che nessun giustiziere solitario può sperare di sconfiggere. Un noir che parla della Realtà, che racconta il Territorio.

Quando la corte è tornata dalle vacanze ha adocchiato in libreria l’ultimo romanzo di Massimo Carlotto, *Respiro corto *(Stile Libero Einaudi), e si è ricordata di quei vecchi appunti. Eccone la pagina 69.

Siamo, pare, in un bordello di Marsiglia, la Marsiglia di Borsalino e del Braccio violento della legge, la Marsiglia dei romanzi di Jean-Claude Izzo, ma qui la scena ricorda più che altro il bordello pariolino di Patrizia in Romanzo criminale, preso a nolo dai servizi segreti per spiare e ricattare personaggi illustri. Entrano in scena B.B. e Xixi, da pronunciarsi Bibì e Xixì, che se non è proprio Mimì e Cocò siamo a un passo. Però mica sono baronesse, sono una poliziotta lesbica e una prostituta cambogiana, e questo fa tanto realtà, fa tanto territorio. Bibì (è una nostra congettura) chiude un occhio sulle attività di Xixì in cambio di servizi vari, sessuali e spionistici: politici di basso rango ripresi da telecamere nascoste mentre fanno festini a base di coca e prostitute, cose del genere. Certo i romeni si sono ripresi Babiche, pare sia stato un pelato con la giacca di pelle. Perché è questa la realtà, amico, non le vecchie zie rincoglionite di Agatha Christie che si avvelenano all’ora del tè.

Ecco, un recensore potrebbe scrivere una cosa del genere: “Un noir che si legge a tempo di jazz. Con una prosa cruda, scattante, implacabile, tagliente come la lama di un coltello, Carlotto ci porta nel cuore nero di una capitale del crimine transnazionale. Dove il mondo inamidato della finanza si confonde con gli scantinati più oscuri, dove i conti si regolano a colpi di kalashnikov, dove scorrono fiumi di denaro e di droga, e dove però ci si può imbattere in un barlume di sorprendente umanità ecc. ecc.”. Quel recensore, non dubitatene, finirebbe al muro delle esecuzioni insieme al suo recensito.

Uno legge una pagina così, e si chiede anzitutto cosa debba intendersi per realismo. La questione è notoriamente interminabile, ma ci appelliamo al diritto marziale di tagliar corto. Realismo è parlare di cose basse e sordide? Non siamo sciocchi: in natura esistono anche le baronesse del Devonshire che prendono il tè, e sono altrettanto reali delle maîtresse cambogiane, vorremmo dire altrettanto tangibili ma è da supporre che si lascino toccare con più difficoltà. Si tratta allora, più probabilmente, del come si racconta un certo mondo. Ebbene, diceva Oreste del Buono, “un giorno mi si sono aperti gli occhi e ho capito che c’è più manierismo in Raymond Chandler che in Agatha Christie”. E non bisogna neppure aprire tanto gli occhi per accorgersi che c’è più manierismo in Carlotto che in Chandler, Agatha Christie, Torquato Tasso e Battista Guarini (quello del Pastor fido) messi insieme. Basta leggere questo dialoghetto:

  • Voglio te.

  • Ma io non sono nel listino.

  • Lo so. Ma io sono la legge.

  • Io la legge la pago ogni mese.

  • Insomma non vuoi proprio trastullarti con questa poliziotta?

Abbiamo ragionato a lungo in camera di consiglio per definire questo Oggetto Letterario Non Identificato, ed ecco la nostra sentenza: sembra la sceneggiatura di un B-Movie americano tradotta da un liceale (non il primo della classe), in cui non ci stupiremmo di trovare qua e là un “dannato bastardo”, un “fottiti, amico” o, come nella vecchia edizione Mondadori di un romanzo di Ellery Queen, un going nuts che diventa “andar per noci”. Ora, non c’è nulla di male a scrivere pagine che sembrano una gag di Olcese e Margiotta, non c’è nulla di male a usare una lingua-patacca e a rimestare tra i cliché per divertimento proprio e del lettore, purché non si tirino in ballo la realtà, il territorio, il conflitto, il sistema, la narrazione antagonista e altre amenità. Così facendo, si firma da soli la propria condanna.

Suvvia, la poliziotta che in pieno bordello, tra un “ho voglia di scopare” e l’altro, se ne esce con un verbo che manco le suddette baronesse del Devonshire, “trastullarsi” (!), e che parla come un personaggio spaccone di Mickey Spillane, “Io sono la legge” (I, the Jury, diceva Mike Hammer). A onor del vero anche Hercule Poirot, in Sipario, proclamava “d’altro canto, io sono la legge!”. Ma Agatha Christie si divertiva appunto a fare il verso al manierismo dell’hard-boiled, a quella sua lingua artificiosa e autoparodistica senz’ombra di ironia. E di pagine orrende l’autrice di Sipario *ne ha sulla coscienza a non finire, per carità, ma una roba come il siparietto di Bibì e Xixì, c’è da giurarci, non l’avrebbe scritta mai. Era troppo intenta a escogitare variazioni immaginose sul *whodunit per accontentarsi di libri atrocemente monotoni dove, gratta gratta, l’assassino è sempre il Sistema. Con il suo fidato complice, il Territorio.

Ma grazie al cielo qui a Pagina69 la legge siamo noi.

E allora ta-ta-ta-ta-ta-ta! Agatha, questa è per te.

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