09 novembre 2014 12:18

In Cina i comunisti avevano appena massacrato gli studenti in piazza Tiananmen e si erano garantiti un altro quarto di secolo al potere. A giugno, invece, i polacchi avevano votato a grande maggioranza per Solidarność e a settembre l’Ungheria aveva aperto le frontiere con l’occidente. Ma fu la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre del 1989, a spalancare davvero le porte.

Avevo trascorso molto tempo in Unione Sovietica a partire dal 1987, quando visitai Mosca dopo un’assenza di cinque anni e non la riconobbi. Le persone non avevano più paura: nei salotti, e a volte anche per strada, dicevano quello che pensavano davvero. Era la prima volta che andavo in Russia senza provare la sensazione di aver lasciato il pianeta Terra.

Perciò quando tornai a casa raccontai alla radio per cui lavoravo che stava per accadere qualcosa di davvero grosso. Non sapevo bene cosa, ma se mi avessero pagato il viaggio avrei trascorso un paio di settimane nel blocco sovietico a intervistare persone ogni tre mesi, e quando il grande evento sarebbe accaduto avrei avuto pronta per loro una serie su questo argomento. A quell’epoca le radio avevano più soldi e più coraggio, perciò mi dissero di sì.

Nel 1989 avevo più o meno capito cosa stava per succedere, ma non sapevo se sarebbe potuto accadere in modo non violento. I segnali erano positivi: avevo trascorso gran parte dell’estate in Unione Sovietica, e a Mosca c’erano già state le prime grandi manifestazioni pacifiche, ma nessuno sapeva ancora dove e quando la diga avrebbe finalmente ceduto. All’inizio di settembre andai da Mosca in Ungheria per una visita veloce prima di tornare a casa.

Nel tragitto dall’aeroporto a Budapest, le strade erano piene di automobili della Germania Est abbandonate, per la maggior parte vecchie Trabant di cui si sarebbe sbarazzata qualsiasi persona sana di mente. Ma qualcosa non quadrava.

Il tassista mi spiegò che l’Ungheria aveva aperto la frontiera con l’Austria. I tedeschi dell’Est arrivavano a ondate, attraversando la Cecoslovacchia senza bisogno di visto per proseguire verso l’Austria e da lì passare in Germania Ovest. Chiesi al tassista di portarmi al campo dei giovani Pionieri sulle colline dietro Buda che era utilizzato come luogo di transito.

Ogni cinque minuti arrivavano taxi da cui uscivano tedeschi dell’Est, di solito una giovane coppia. Ogni ora un autobus li portava tutti quanti in occidente. E dopo un’ora circa trascorsa a intervistarli mentre arrivavano al cancello, avevo capito cosa sarebbe successo dopo.

Non si consideravano dei profughi che stavano per cominciare una nuova vita in occidente. Volevano approfittare di un’occasione per vedere l’occidente, dove sarebbero stati al sicuro se le cose fossero andate a finire male in Germania Est, ma la maggior parte di loro era assolutamente convinta di tornare a casa nel giro di un anno, in una Germania Est democratica.

Sull’aereo che mi avrebbe riportato a casa cominciai a scrivere un articolo in cui paragonavo il regime comunista della Germania Est a un personaggio dei cartoni animati che si era spinto oltre il ciglio di un precipizio ma non sarebbe caduto finché non avesse guardato in basso. Appena atterrato prenotai un biglietto per tornare a Berlino a fine ottobre. Giusto in tempo per una grande festa.

Quello che stupì tutti fu il modo in cui il vecchio sistema crollò. Questa straordinaria nuova tecnica di rivoluzione non violenta aveva funzionato bene in Asia a partire dal 1986, nelle Filippine, in Thailandia, in Corea del Sud, e in Bangladesh, ma rovesciare un regime comunista appariva un’impresa molto più pericolosa e incerta, soprattutto dopo piazza Tiananmen.

La festa fu così grande perché tutti erano sollevati per la facilità con cui si erano svolte le cose. Non ne potevano più dei gretti e noiosi comunisti che dominavano le loro vite, ed erano stanchi di essere poveri, ma nessuno voleva morire in una rivoluzione vecchio stile. Eppure l’ideologia comunista obbligava i fedeli a scatenare una guerra civile piuttosto che cedere il potere in modo pacifico.

Perciò quando si scoprì che la non violenza funzionava anche contro i comunisti, almeno in Europa, le persone pensarono giustamente di essere state molto fortunate. Per di più era sparita anche la minaccia di una terza guerra mondiale nucleare. Un quarto di secolo dopo la vecchia Nato continua ad arrancare cercando opportunità di lavoro ovunque si presentino, ma è diventata simile al suono di una sola mano che applaude.

In posti come la Romania e la Russia ci sarebbero stati problemi in seguito, ma nel complesso si trattò di una rivoluzione radicale e straordinariamente pacifica in una parte del mondo che non era certo famosa per le sue transizioni pacifiche. Perciò, passati i festeggiamenti a Berlino, affittai un’automobile e guidai fino a Varsavia per vedere come se la stava cavando il nuovo governo postcomunista in Polonia.

Parcheggiai davanti alla sede di un ministero su Nowy Świat, e mentre ero dentro per intervistare il ministro qualcuno forzò la mia auto e mi rubò la valigia, in cui c’erano tutti i nastri delle interviste fatte a Berlino e il pezzo di muro che volevo portare a casa per regalarlo a mia figlia. I soldati che marciavano su e giù all’interno della recinzione avevano visto tutto, ma spiegarono che il loro lavoro non era fermare i ladri.

Perciò denunciai il furto alla polizia per intascare l’assicurazione, spiegando che se avessero visto un uomo ben vestito che zoppicava vistosamente probabilmente era il ladro. Nella valigia che mi avevano rubato c’era l’abito che avevo indossato per intervistare i presidenti, ma avevo messo dentro per errore due scarpe sinistre. Loro non risero (dopo tutto erano stati addestrati dai comunisti) e mi diressi verso Praga per assistere alla successiva rivoluzione.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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