12 marzo 2015 18:04

Mi trovo in Alberta, la provincia che produce la maggior parte del petrolio canadese. Sulla bocca di tutti c’è una sola domanda: per quanto tempo ancora il prezzo del petrolio resterà così basso? Il costo del greggio si è più che dimezzato negli ultimi nove mesi (oggi il West Texas intermediate è a 48 dollari al barile) e nelle prossime settimane è previsto un ulteriore calo.

Questo fenomeno sta provocando una diminuzione degli introiti del governo e dei salari nei centri produttori come Alberta, Texas e il mare del Nord britannico, ma i suoi effetti si fanno sentire anche altrove. I produttori di energia “pulita”, per esempio, subiscono un calo della domanda per i pannelli solari e le turbine eoliche dovuto alla rinnovata competitività del petrolio. Le automobili elettriche, per le quali quest’anno era previsto un sensibile avanzamento sul mercato, stanno perdendo terreno a beneficio delle auto alimentate a benzina, il cui prezzo è calato sensibilmente.

In cattive acque ci sono anche i paesi che sono diventati troppo dipendenti dalla vendita del petrolio, come la Russia (dove il valore del rublo si è dimezzato in sei mesi) e il Venezuela. Stati come l’India, che importa la maggior parte del combustibile che consuma, ricevono una forte spinta economica dal calo del prezzo del greggio. La durata di questo fenomeno è molto importante per un numero enorme di persone.

Per sapere quanto durerà bisogna analizzare due numeri cruciali. Il primo: l’Arabia Saudita ha 900 miliardi di dollari in riserve di valuta, quindi può permettersi di mantenere bassi i prezzi almeno per un altro paio d’anni. Il secondo: in base alle ultime stime i produttori che ricorrono alla tecnica della fratturazione idraulica (fracking) e hanno aggiunto quattro milioni di barili al giorno alla produzione degli Stati Uniti (inondando di fatto il mercato), negli ultimi cinque anni avrebbero accumulato 160 miliardi di dollari di debiti con le banche.

Per mantenersi a galla mentre il prezzo del petrolio resta basso, questi produttori dovranno prendere in prestito ancora molto denaro, perché in questa situazione nessuno di loro può realizzare profitti. Nel mondo del petrolio i costi di produzione sono segretissimi, ma è opinione comune che quello prodotto attraverso la fratturazione idraulica non costi meno di 60-70 dollari al barile.

In questo senso la lotta è tra i produttori che usano il fracking e l’Arabia Saudita. Riyadh è la chiave di volta dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), il cartello che ha dominato il mercato globale negli ultimi cinquant’anni. Tutti gli esportatori vogliono tenere alto il prezzo del barile, ma l’Arabia Saudita è l’unico paese che può e vuole tagliare sensibilmente i suoi costi finché l’eccesso di produzione manterrà i prezzi bassi. I sauditi possono permetterselo perché hanno una popolazione numericamente contenuta, grandi riserve valutarie e costi di produzione talmente bassi da poter realizzare profitti indipendentemente o quasi dal prezzo del barile.

Ma nemmeno i sauditi possono fare miracoli. Possono scegliere la produzione massima o il prezzo massimo, ma non entrambi. In circostanze normali taglierebbero la produzione temporaneamente per provocare un aumento dei prezzi, ma questa volta hanno lasciato che il prezzo del petrolio crollasse nonostante le richieste di alcuni paesi dell’Opec che hanno bisogno di denaro al più presto.

I sauditi hanno una strategia. L’Opec controlla solo il 30 per cento della produzione mondiale di petrolio, una percentuale molto bassa per un cartello che vorrebbe determinare i prezzi. Se il fracking continuerà a svilupparsi negli Stati Uniti, la quota di mercato dell’Opec si ridurrà ulteriormente, quindi è indispensabile sbarazzarsi di questa concorrenza subito.

A prima vista i sauditi sembrano i sicuri vincitori di questo scontro, perché possono sopravvivere ai prezzi bassi molto più a lungo dei produttori indebitati. Le banche che hanno prestato alle compagnie statunitensi non recupereranno il loro denaro se ci sarà un’ondata di fallimenti, ma allo stesso tempo non vogliono perdere altri soldi concedendo nuovi prestiti.

In questa situazione la variabile è il governo degli Stati Uniti, consapevole che l’indipendenza energetica può essere raggiunta solo attraverso l’aumento della produzione derivata dal fracking. Washington permetterà alle compagnie statunitensi di fallire? O gli concederà garanzie bancarie e sussidi diretti per provare a sfiancare i sauditi?

La risposta è scontata. Washington farà tutto ciò che sarà necessario per salvare l’industria del fracking. In casi come questo l’ideologia viene messa da parte, e l’amministrazione Obama avrebbe il sostegno di tutto lo spettro politico nel tentativo di proteggere un’industria americana da una concorrenza “sleale” straniera. Probabilmente l’intervento del governo permetterebbe alle compagnie che usano il fracking di restare a galla per altri due o tre anni.

Nel frattempo i membri dell’Opec che dipendono dalla vendita del petrolio per sfamare la popolazione (Iran, Nigeria e Venezuela) dovranno affrontare grandi proteste e perfino la minaccia di una rivoluzione. I loro governi eserciteranno un’enorme pressione sull’Arabia Saudita per convincere Riyadh a tagliare la produzione e provocare un nuovo aumento dei prezzi. È impossibile prevedere l’esito di questa partita, ma possiamo dire quando finirà: tra due anni. Quando l’esito sarà chiaro, infatti, il prezzo del petrolio tornerà a salire indipendentemente dal vincitore. Ma la crescita sarà lenta. È difficile che il prezzo del greggio torni a superare i cento dollari al barile prima del 2020.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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