21 gennaio 2015 12:01

Dieci anni fa io e le mie colleghe Laila Wadia, Gabriella Kuruvilla e Ingy Mubiayi abbiamo scritto un libro dal titolo provocatorio: Pecore nere (a cura di Emanuele Coen e Flavia Capitani, pubblicato da Laterza). Erano dei racconti che parlavano della nostra condizione di figlie di migranti in Italia. Era il primo libro del genere scritto sul tema nel nostro paese e infatti all’epoca i giornalisti non sapevano bene come trattarci.

Non si capacitavano di quelle quattro “straniere” che parlavano così bene l’italiano e sapevano tante cose sull’Italia. Quando noi spiegavamo che eravamo di fatto italiane, nate e cresciute a Roma, Milano o Trieste, loro ci guardavano dubbiosi. Possibile? Italiane? Voi? Ma siete troppo marroni! All’epoca non era nemmeno entrata nell’uso la formuletta magica “seconda generazione” che un po’ spiegava delle cose, anche se non in modo ottimale. Eravamo di fatto, per chi ci doveva raccontare, delle aliene.

Erano i mesi delle rivolte delle banlieues a Parigi e spesso con Laila, Gabriella e Ingy eravamo intervistate su questo tema. Quando spiegavamo che la situazione italiana era ben diversa da quella francese – e a tratti più grave per la mancanza di una legge sulla cittadinanza basata sullo ius soli – quasi non ci credeva nessuno. In questi dieci anni il protagonismo dei figli di migranti è aumentato. Organizzazioni come Rete G2, Anolf e Questa è Roma si sono fatte sentire.

Purtroppo però a livello legislativo la situazione è rimasta la stessa. Continuano a definirci immigrati di seconda generazione. Lo vedo scritto ovunque in questi giorni. Immigrati da dove? Dal ventre di nostra madre? Gabriella Kuruvilla me lo chiede sempre: “Ma da dove siamo migrate, Igiaba?”, e io penso che sì, ho un po’ migrato da Roma nord a Roma est, il più grande spostamento della mia vita, a pensarci bene. Sembra quasi che l’immigrazione sia una tara genetica, qualcosa che si passa di generazione in generazione e che, come l’ergastolo, paghi per tutta la vita.

Noi figli di migranti non siamo ancora accettati da un paese che è il nostro, l’unico che conosciamo a fondo. Siamo cittadini, noi almeno ci consideriamo tali, ma la legge ci snobba e l’immaginario non ci racconta. Abbiamo lottato, scritto libri, postato video su YouTube, composto canzoni, organizzato flash mob.

In occasione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, con lo slogan “Questa cittadinanza s’ha da fare”, abbiamo letto quasi per intero, in una staffetta organizzata da Save the children e Rete G2, I promessi sposi di Alessandro Manzoni, che era un po’ come noi, con due culture sulle spalle. E come non ricordare “L’Italia sono anch’io”? Una mobilitazione popolare, una raccolta di firme epica che ci ha fatto scoprire che se questa benedetta cittadinanza ancora non c’è la colpa è solo della politica.

Ma oggi dobbiamo affrontare il pericolo più grande. Dopo i fatti di Parigi, dopo Charlie Hebdo, dopo che si è scoperto che i terroristi erano figli di migranti nati in Francia, siamo stati caricati di un significato nuovo e molto negativo. I soliti professionisti dell’odio vanno dicendo che siamo una quinta colonna, dei nemici interni di cui diffidare. E qualcuno purtroppo comincia a crederci. Che fine farà a questo punto il dibattito sullo ius soli in Italia? La legge promessa sarà bloccata?

Sarebbe importante in questa fase di caos, in cui c’è chi vuole un’Europa (e quindi anche un’Italia) sospettosa e chiusa, ribadire con più forza il concetto di cittadinanza. Non solo per i figli di migranti, ma anche per i nostri genitori, per i nostri zii. In Italia serve un patto di cittadinanza tra tutti noi, dobbiamo ribadire ciò che siamo, ciò che ci unisce. Dobbiamo costruire un paese, un continente, sui valori che stanno alla base della nostra convivenza. Se non lo faremo presto avrà vinto il caos e sarebbe davvero imperdonabile.

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