04 settembre 2015 11:06

“Sono afroamericana”, mi dice con un certo orgoglio una signora con una blusa viola. “Negli Stati Uniti una piazza così non ce l’abbiamo, è immensa”. Vedo nel suo viso una meraviglia quasi infantile. Io e lei siamo sedute insieme a molte altre persone sotto il colonnato di piazza San Pietro. È il 30 agosto e fa caldissimo: 39 gradi. Il sole è vagamente minaccioso con quei suoi raggi nodosi. Si rischia una vera ustione senza protezione solare. Non a caso siamo tutti muniti di cappelli, ombrellini, bottigliette d’acqua.

Però all’ombra non si sta male. Bernini l’aveva pensata bene la sua opera. Una piazza che abbraccia e protegge dalla pazzia delle stagioni fuori controllo. Entrambe attendiamo la recita dell’angelus di papa Francesco. Lei è cattolica, per l’esattezza viene da Arlington, in Virginia, ha preso un volo intercontinentale per stare seduta sotto quel colonnato. Io ho banalmente preso la metro A da piazza Vittorio per sette fermate. Non sono cattolica, anzi non sono nemmeno cristiana, ma musulmana. Però sono romana. Non di sette generazioni (nessuno lo è), ma romana di nascita quello sì. E come molti romani sono un po’ pigra. E molto della mia città mi sfugge.

È stata una cugina che vive in Danimarca a dirmi: “Ma come? Non sei mai andata a vedere il papa? Non ti è mai venuta curiosità?”.

Ops, veramente no: la domenica, piazza San Pietro, il traffico, la gente… E poi dove si parcheggia? Tutti sudano, ti spingono. E poi sulla metro stiamo tutti schiacciati, già mi dovrò subire il giubileo e poi…

“E poi cosa?”, mi dice mia cugina con rimprovero. “Almeno al Colosseo ci sei entrata?”.

Ok, sono pigra, ma non fino a questo punto. “Al Colosseo ci sono stata, più volte” ribadisco quasi con rabbia.

“Siete incredibili, avete tutto e non fate niente voi romani”, conclude lei. Mi sento punta sul vivo.

Io che entro a vedere ogni Caravaggio, che conosco ogni sampietrino della mia città mi sento improvvisamente vuota. È vero il papa l’ho visto solo in televisione.

“Ci andrò questa domenica”, le dico quasi sfidandola. Credo che abbia ridacchiato.

In piazza San Pietro, il 30 agosto 2015. (Rino Bianchi)

La recita domenicale della preghiera dell’angelus è un momento rituale nella vita della città. Lo è per chi è molto religioso, ma anche per chi non lo è affatto o come me non è cattolico. Certo, la parte religiosa con lettura del Vangelo e il raccoglimento in preghiera è una parte fondamentale. Ma la piazza, come mi ha confidato una volontaria dell’ordine di Malta, “diventa una cartina di tornasole del mondo”.

Per un attimo piazza San Pietro non è più solo Roma e il Vaticano, ma diventa la Siria, il Kurdistan, l’Iraq, l’Ucraina. Senza accorgerci piombiamo nelle realtà delle favelas di Recife o nei drammi che si consumano nel Mediterraneo o alla frontiera tra Messico e Stati Uniti. Da quella finestrella dove un uomo vestito di bianco lancia appelli si materializza in un attimo tutto quello che non siamo riusciti a risolvere o a salvare. Ed ecco che davanti a noi vediamo la distruzione di New Orleans da parte di un uragano violento o Palmira che soccombe ai colpi delle barbarie.

Ecco il tappeto rosso

È un rito della città a cui da romana non ho mai partecipato e – anche se mi fa fatica confessarlo dopo i rimproveri di mia cugina – era una grande lacuna non essere andata almeno una volta a osservare tutto questo.

Guardo la signora afroamericana, ha gli occhi che le brillano, vorrei chiederle il nome. Ma non faccio in tempo. “Oddio stanno mettendo il tappeto rosso alla finestra, allora arriva, arriva”, esclama, e corre lontano. È irraggiungibile. Il suo scatto felino l’ha portata oltre l’obelisco.

Il tappeto rosso è l’annuncio che qualcosa sta per succedere, che papa Francesco sta per arrivare. Ed ecco che la gente si raduna in direzione della finestra dello studio della terza loggia del palazzo apostolico. Sembra l’inizio di un concerto rock, quando i microfonisti mettono a posto i fili degli strumenti musicali. La band è ancora dietro le quinte, ma quel trafficare è già l’annuncio della buona novella. La gente appare all’improvviso, da ogni dove. La piazza si riempie. Qualcuno tira fuori gli striscioni. L’evento sta per iniziare. Ma da dove spuntano? Dov’erano prima?

In piazza San Pietro, il 30 agosto 2015. (Rino Bianchi)

Io sono arrivata in piazza alle nove. Avevo letto in qualche sito internet il consiglio di arrivare prima delle dodici, orario dell’angelus. Sono la solita esagerata e sono arrivata un’eternità prima. Allora ho cominciato a gironzolare. Ci sono file ovunque. È l’ultima domenica del mese i musei Vaticani sono a ingresso gratuito. La fila è un serpente che comincia dal colonnato per snodarsi come un dragone del capodanno cinese per tutta via Leone IV. Questa fila è ben separata dall’altra (anch’essa lunghissima) che introduce invece all’interno della basilica.

Lì mi rendo conto degli anni che passano. Ho una fotografia a casa in cui ci siamo io e mio fratello Abdul davanti alla chiesa. Quando avevo sette anni a San Pietro ci entravi senza fila, senza controlli. Sembra un’era geologica fa.

Pellegrini e turisti si siedono sfiniti ai bordi dell’abbraccio marmoreo del Bernini. Qualcuno reduce dai 537 scalini della cupola di Michelangelo, alcuni affaticati da altri monumenti, da altre camminate. Vedo un gruppo di persone con la maglia del San Lorenzo. Sono sudamericani. Li riconosco dal volto. Li scambio per argentini. “Tifate la stessa squadra di papa Francesco”, dico per attaccare bottone. L’uomo, che si chiama Pedro Gaona, “No, no: questa non è la maglia della squadra del San Lorenzo. Non è nemmeno argentina. Noi siamo del Paraguay e questa è la maglia della mia città”.

Dall’altro capo del mondo

Bella, penso, i colori sono accecanti. Sono un gruppo di musica folcloristica. Il cantante, il giovanissimo Juan Sandino (lui si che indossa una maglia di calcio, quella della sua nazionale), mi spiega la differenza tra i vari stili di musica paraguayana. Poi mi dice “è bello stare qui. Il papa lo abbiamo visto quando è stato in visita da noi in Paraguay e pure a Rio de Janeiro siamo stati a sentirlo”. “Siete amici ormai”, gli dico sorridendo. “Magari”, sospirano. “Però ci siamo messi tutti la maglietta della nazionale per farci notare, magari da lassù ci vede, non si sa mai”.

Le magliette di calcio abbondano nella piazza. Il numero 10 di Messi è il più gettonato. Ognuno ha il desiderio di essere riconosciuto, se non direttamente dal papa, almeno dalla piazza. I pellegrini li distingui subito dai turisti. Sono equipaggiati. E anche senza dirselo c’è un dress code che quasi tutti cercano di adottare. Sembra una sfilata di moda. L’imperativo categorico è il colore.

Ed ecco che la maglietta della seleçao brasiliana viene arricchita da strani cappelli con le piume, altri invece sfoggiano magliette fosforescenti peace&love che fanno somigliare la piazza dei papi a una Woodstpck dei noantri. Chi non ha un Messi o un Cristiano Ronaldo da indossare allora si porta la bandiera del suo paese. Un gruppo di pellegrini portoghesi di vicino Braga me lo dice esplicitamente: “Ci teniamo che si sappia che ci sono dei portoghesi in piazza”.

Souvenir a piazza San Pietro, il 30 agosto 2015. (Rino Bianchi)

Tutti con la bandiera, tutti facendosi fotografie da condividere su qualche social network. Conto mille bandiere. Ci sono il Kenya, la Tanzania, gli Stati Uniti, le Filippine, l’immancabile Argentina. E ci sono anche le mise folcloristiche, le capigliature elaborate, miste a un genere casual dettato dall’afa e dal caldo. E poi ci sono gli scout con i pantaloncini corti e il fazzoletto al collo. Non manca mai qualche dama di una certa età che sfoggia l’abito della domenica, quello che ci si mette nelle occasioni importanti. Ed ecco che le vedi barcollare incerte su tacchi mai indossati.

C’è chi si raccoglie in preghiera. E chi scambiando la piazza per una spiaggia si mette a prendere il sole su stuoie di paglia. Qualcuno si addormenta sotto il colonnato. Il caldo concilia il sonno. Gli italiani non portano bandiere, ma striscioni. La piazza è piena di bambini. Vengono da Cuneo, da Brescia, da Arconate, dalla scuola San Giovanni Bosco di Salsano in provincia di Venezia. “Questo papa ci piace”, dicono i più giovani. “Parla semplice e chiaro. Si capisce quello che dice, non come quello di prima che parlava veramente difficile”.

Al momento giusto

Una signora brasiliana, di Rio de Janeiro, quartiere Leblon, mi confessa: “Credo che papa Francesco sia venuto al momento giusto”. Le fa eco una suora di Minturno: “Dio sa quello che fa. Erano i tempi di questo papa. Sono tempi difficili”, scuote la testa. Ed ecco che in piazza viene evocata la storia dei nostri giorni. Le immagini dei bambini morti nell’ultimo naufragio di Zuwara sulle coste della Libia sono ancora negli occhi di tutti. “Ma come si fa a morire così?”, mi dice Sara, una ragazza milanese di quattordici anni. “Non è giusto che muoia gente della mia età”.

Un gruppo di missionari comboniani mi dice quasi in coro: “Deve finire lo sfruttamento delle risorse del sud del mondo, deve essere restituita a tutti la dignità umana”. Citano il Congo, paese immenso mangiato prima dal colonialismo storico e poi dallo sfruttamento delle multinazionali. I missionari sono a Roma per il loro capitolo generale. Provengono da almeno 70 paesi.

Ed ecco che mi intrattengo con Ruben, Jervas, Daniel e altri. Sono del Sud Sudan, del Togo, dell’Uganda, del Perù. E ognuno lavora in un paese diverso da quello di nascita. Per esempio Robert che è ugandese sta in Germania. Sono loro che pronunciano con più forza parole come immigrazione, colonialismo, sfruttamento. Sanno che se non si risolveranno le diseguaglianze nel mondo, la gente continuerà a soffrire e a dare in mano ai trafficanti di morte le loro vite. Chiedono diritto al viaggio, diritto a essere umani. Si aspettano molto dall’angelus del papa, come per esempio il ricordo dei 71 migranti morti in Austria dentro un camion che trasportava carne. “Il papa è molto ottimista, ci spinge a lavorare tutti insieme. Dopottutto anche lui è un prodotto della migrazione”.

Se lui è cristiano e noi musulmane che differenza c’è? L’importante nella vita è essere brave persone

L’angelus si avvicina. Giovani seminaristi cominciano a fioccare da ogni dove. In piazza anche molte biciclette. È un luogo di sosta per i ciclisti. Walter Berardo, per esempio, ha appena vinto una sua scommessa personale. Ha percorso il tragitto da Cuneo a Roma pedalando: “Coltivavo questa idea da molti anni. Ho fatto tutta la costa, l’Aurelia soprattutto. La grande fatica sono state le Cinque terre con tutte quelle salite e ora sono finalmente qui. Non sapevo dell’angelus, ma visto che ci sono mi fermo ad ascoltare”.

E sono in tanti a fermarsi ad ascoltare. Vedo due ragazze egiziane. Una velata e una no. “Il papa è simpatico”, mi dicono. “Poi se lui è cristiano e noi musulmane che differenza c’è? L’importante nella vita è essere brave persone”. Solo una mi confessa: “Non capirò niente, ma è così bella la melodia dell’italiano, sembra una canzone. Quasi quasi quando ritorno al Cairo mi iscrivo a un corso”.

In effetti non ci ho mai pensato. Il papa è un grande ambasciatore della lingua italiana. Forse più dei nostri politici.

Intanto il caldo aumenta. Manca poco. Incrocio con lo sguardo alcune signore venute dalla provincia di Neuquen, in Argentina. Sorridono. “Viviamo tempi angustianti”, mi sussurra una del gruppo. Somiglia ad Audrey Hepburn. Lei non riesce a sorridere. Guarda la finestra.

“Eccolo!”, urla qualcuno. E come in uno stadio la piazza si riempie di boati.

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