14 gennaio 2021 16:27

La sfida più immediata con cui deve fare i conti qualsiasi nuovo presidente è decidere cosa non fare. Per Joe Biden e Kamala Harris le catastrofi degli ultimi giorni non hanno radicalmente cambiato il modo in cui dovrebbero fare queste scelte. Dieci giorni fa era imperativo che guardassero soprattutto avanti: alle emergenze di sanità pubblica, economiche e di affari esteri che stanno ereditando. Questo resta il loro compito e il loro imperativo. Ma per il resto del governo, e buona parte della società, il barbaro e potenzialmente catastrofico assalto al Campidoglio degli Stati Uniti, e la colpevolezza di personaggi pubblici e privati che hanno incoraggiato la banda di assalitori, impongono una risposta.

La risposta del congresso dovrebbe essere la messa in stato d’accusa. Quella delle forze dell’ordine dovrebbe essere arrestare e perseguire tutti i partecipanti che sarà possibile identificare. E quella della società civile dovrebbe essere fare sì che ci siano conseguenze per quanti scelgono la violenza e il fascismo in un momento decisivo della storia del paese. Solitamente “mettere una pietra sul passato” è un saggio consiglio per le persone e le società. Non in questo caso.

Recentemente ho citato le parole di Jack Watson, che ha avuto un ruolo centrale in due transizioni presidenziali, riguardo allo squilibrio tra le innumerevoli speranze, finalità e ambizioni con cui comincia qualsiasi nuova presidenza e quelle poche sfide che, semplicemente, non può ignorare. “Occorre separare le cose da fare, presto, dalle altre che potresti voler fare in futuro durante il tuo mandato”, mi aveva detto Watson.

Per il nuovo presidente e la nuova vicepresidente, la chiarezza d’intenti a proposito di questa scelta è più importante, e più difficile, di quanto lo sia stata per quasi tutti i loro predecessori. È più importante perché si stanno trasferendo in una casa che va a fuoco. Si assumono la responsabilità per una serie di emergenze mai viste da quando Franklin D. Roosevelt prese il posto di Herbert Hoover nel 1933, inferiore solo a quella toccata ad Abraham Lincoln nel 1861. La lista incompleta delle emergenze include una pandemia in crescita, un’economia danneggiata e dagli squilibri insostenibili, e un sistema di governo i cui princìpi fondamentali sono sotto attacco diretto e la cui competenza a livello operativo è stata svuotata.

Le priorità di Biden e Harris
Le loro decisioni saranno più difficili che per la maggior parte delle nuove amministrazioni, perché oltre a dover guardare avanti, a tutti i problemi che oggi si richiede loro di risolvere, devono guardare al passato, per fare i conti con l’operato di Donald Trump e dei suoi complici. Come ho scritto nell’articolo apparso sulla versione cartacea di The Atlantic, “mentre si prepara a insediarsi nella Casa Bianca, il presidente eletto Joe Biden ha di fronte una decisione rara nella storia degli Stati Uniti: cosa fare dell’uomo che ha appena terminato il suo mandato, e la cui corruzione personale, il cui disprezzo per la costituzione, e la cui distruttiva gestione del governo federale non hanno precedenti”.

In quell’articolo, terminato due mesi fa, appena dopo le elezioni, avevo immaginato un sistema di priorità per come la squadra Biden-Harris avrebbe dovuto prendere queste decisioni. Per semplificare, sostenevo che:

  • per le questioni di corruzione, dovrebbero lasciare il lavoro alle autorità degli stati che hanno già avviato delle indagini. E per le possibili violazioni del diritto federale – dall’aver ignorato l’Hatch act (una legge che impedisce la partecipazione dei funzionari statali ad attività politiche di parte) all’aver ostacolato il servizio postale degli Stati Uniti – dovrebbero nominare un procuratore generale di chiara fama e indipendente, oltre a degli ispettori nei dipartimenti esecutivi, lasciando loro il resto del lavoro.
  • Per quanto riguarda l’erosione della competenza del governo federale, dal dipartimento di stato ai Cdc (Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie), un nuovo presidente può e deve agire direttamente e immediatamente. Delle quattromila posizioni scelte con nomina politica nel settore esecutivo, circa tremila non necessitano di una conferma da parte del senato. La squadra di Biden può e dovrebbe nominarle senza indugi. E poiché le vittorie di Raphael Warnock e Jon Ossoff in Georgia hanno dato ai democratici il controllo del senato, Biden potrà ottenere la nomina degli altri mille senza inutili ritardi.
  • Per quanto riguarda le catastrofi della nostra epoca, dalla gestione della pandemia all’ascesa della violenza dei suprematisti bianchi, ho suggerito risposte più di lungo periodo che una nuova amministrazione potrebbe autorizzare e incoraggiare. Tra queste ci sarebbe la creazione di commissari nazionali di alto livello, sul modello della commissione Kerner per la giustizia razziale degli anni sessanta, o la commissione per l’11 settembre dopo gli attacchi del 2001: metodi meno polarizzanti e più promettenti per affrontare le crisi pubbliche più spinose.

Scrivevo tutto questo “prima”: prima che un presidente in carica e vari senatori degli Stati Uniti (e la moglie di un giudice della corte suprema in carica) incoraggiassero un’orda d’insurrezionalisti, prima che quest’orda entrasse con la forza nel Campidoglio e spalmasse escrementi sulle sue pareti, prima che la bandiera degli stati confederati venisse sventolata in uno spazio che era stato sede del governo dell’Unione. E prima che otto senatori e 139 deputati degli Stati Uniti – tutti repubblicani, e con i deputati che costituivano buona parte della delegazione del partito alla camera – votassero per sovvertire i risultati del collegio elettorale, per la prima volta nella storia del paese. Adesso che viviamo nel “dopo”, come cambiano le cose?

Per Biden e Harris la strada giusta rimane quella di prima. Il loro compito principale è fare i conti con le emergenze che hanno di fronte. Vaccini e risorse per combattere la pandemia. Aiuti, rinnovamento e innovazione per fare i conti con i gravi e palesi squilibri della crisi economica. Investimenti, visione e coordinamento per fare sì che “build back better”(ricostruire meglio) non sia solo uno slogan. La ripresa del paese dipende da come si dedicheranno a simili compiti. Per non parlare delle loro fortune politiche, e di quelle del Partito democratico.

Il nuovo presidente e la nuova vicepresidente non possono permettersi di guardare indietro. Il resto di noi ha il dovere di farlo. La persona che ha la maggiore responsabilità individuale per l’orrore del 6 gennaio è, naturalmente, Trump. È una persona compromessa, colpevole, inadatta e il cui onore è infangato per sempre. Ma non è mai stato niente di diverso, come ho sostenuto nella mia serie di 152 “capsule del tempo”, scritte durante la sua ascesa nel 2016, mentre Trump prefigurava il suo raggelante discorso d’insediamento sul “massacro americano”.

Facebook e Twitter sono consapevolmente diventate parte fondamentale di un ecosistema di disinformazione

Ma Trump non avrebbe potuto esprimere tutto il suo oscuro potenziale senza un cast di supporto compiacente e colpevole. Tra questi c’è un’organizzazione politica che si è trasformata da Grand old party (i repubblicani) a un gruppo della repubblica di Vichy, che ha chinato il capo di fronte a Trump invece di resistergli. Tra questi ci sono una classe di giornalisti estremamente di parte che ha amplificato le bugie di Trump (come ha nuovamente sottolineato Margaret Sullivan), e una stampa istituzionale timidamente imparziale che è sembrata terrorizzata all’idea di usare la parola “menzogna” (ha preferito l’alternativa sicura “senza prove”. In altri tempi avremmo avuto frasi come “i sovietici sostengono senza prove di essere stati i primi ad atterrare sulla Luna” oppure “Richard Nixon sostiene senza prove di non essere corrotto”). E ci sono anche le aziende di social network, in particolare Facebook e Twitter, che sono consapevolmente diventate parte fondamentale di un ecosistema di disinformazione. Twitter ha fornito un megafono alle menzogne di Trump e al suo incitamento alla violenza per quasi un decennio, prima di giungere alla tardiva ma benvenuta decisione di negargli una piattaforma senza limiti. Gli stessi dipendenti di Facebook hanno protestato contro il ruolo svolto dalla loro azienda.

Questi gruppi si sono comportati così perché temevano le conseguenze se avessero agito in senso contrario. Il Partito repubblicano e il sistema d’informazione di Fox News temevano l’ira di Trump e le passioni di una base che lui ha tenuto sempre di più in stato di febbrile agitazione (il chiaro rifiuto di piegarsi a Trump, da parte di funzionari elettorali risolutamente conservatori del Partito repubblicano in Georgia ha suscitato molto interesse per la rarità della cosa). La stampa mainstream si è comportata in questo modo soprattutto a causa di una cultura che teme di essere criticata per l’“aver preso posizione”. Le aziende di social network hanno opportunisticamente adottato la linea che consiste nel presentarsi unicamente come “piattaforme”, invece che come editori, non potendo così essere attaccate per quanto appariva nei loro siti (per non parlare dei numerosi segni di una comune visione del mondo fra Trump, i suoi alleati e importanti dirigenti di Facebook, come Mark Zuckerberg, Peter Thiel e Joe Kaplan. Naturalmente il ruolo di Zuckerberg è fondamentale: oltre a essere presidente e amministratore delegato di Facebook, controlla da solo più della metà delle “quote di voto” di tutta l’azienda, il che gli dà un potere decisionale individuale e illimitato su quello che è forse il mezzo di comunicazione più influente al mondo).

Azioni senza conseguenze
Ci sono state poche conseguenze per chi ha sostenuto la sua linea: per chi ha sostenuto un presidente per il quale molti senatori e deputati esprimono il loro disprezzo in privato (sempre in privato), per chi ha definito “controverse” o “senza prove” opinioni che i giornalisti sanno essere bugie spudorate, per chi ha permesso alla tecnologia dei social network di diventare la spina dorsale organizzativa della disinformazione e dell’odio. Questi comportamenti, che erodono un’attività di governo democratica sul lungo periodo, sono oggi trattati con troppa leggerezza (si pensi alla libertà con cui politici e funzionari repubblicani cominciano a criticare Trump quando lasciano il loro incarico). I risultati di queste faziose valutazioni di costi e benefici sono prevedibili. Giorno dopo giorno, voto dopo voto, storia dopo storia, le persone fanno scelte di cui in seguito non saranno fiere.

Nel suo ultimo editoriale sul Wall Street Journal, Peggy Noonan, già autrice dei discorsi di Ronald Reagan, ha sostenuto appassionatamente l’opportunità, per usare le sue parole, di usare il pugno di ferro su quanti sono direttamente o indirettamente responsabili della profanazione del Campidoglio. “Quando una cosa del genere accade, tende a ripetersi”, ha scritto. “È nostro compito fare sì che non sia così. Per questo dovremmo essere inflessibili con tutti i responsabili, agendo con brutale rapidità contro tutti i membri della folla di assalitori e i loro istigatori”.

Tra questi istigatori, ha scritto, c’è in primis Trump ma anche i rappresentanti repubblicani del congresso che si sono schierati con lui e contro il pacifico passaggio di poteri, in particolare i senatori Josh Hawley e Ted Cruz. “Sono uomini intelligenti, molto istruiti e con eccellenti credenziali”: Hawley è un prodotto della facoltà di legge di Yale, e Cruz di quella di Harvard. “Ecco qua, ragazzi. Avete visto i vetri infranti, la folla che prendeva d’assalto i saloni come i vandali nell’antica Roma, il personale che si rifugiava negli armadi chiusi a chiave o si barricava negli uffici? Ammirate, voi potenti, la vostra opera e disperatevi”.

Le azioni dovrebbero avere delle conseguenze, e le conseguenze condizioneranno le azioni future. In che modo è possibile modificare le conseguenze dopo quanto accaduto? Ecco una lista non esaustiva, tanto per cominciare.

Messa in stato d’accusa

Quasi due anni fa Yoni Appelbaum sosteneva in un articolo, a cui era stata dedicata la copertina di The Atlantic, che le azioni di Trump avevano già oltrepassato il limite che avrebbe giustificato un impeachment. Oggi i notiziari di una qualsiasi settimana contengono svariate voci a favore di una messa in stato d’accusa. La recente registrazione telefonica di un’ora, nella quale Trump rivolge richieste e minacce ai funzionari elettorali della Georgia affinché modifichino il conteggio elettorale del loro stato, sembra oggi dimenticata, ma è più grave di tutte le accuse o i sospetti rivolti contro Richard Nixon. L’evidente incitamento ai disordini di Trump, attraverso i suoi tweet e il suo discorso del 6 gennaio mattina, è una memoria più recente e incomparabilmente più grave.

Dati i tempi stretti è possibile che, anche in caso di successo, un tentativo d’impeachment non rimuova Trump dal suo incarico più velocemente di quanto farebbero comunque le scadenze costituzionali. Ma obbligherebbe i politici del suo partito a esprimersi ufficialmente per o contro di lui. E comunicherebbe al mondo, e al nostro paese, la consapevolezza che è successo qualcosa di terribile, e che non potrà succedere di nuovo. Le società che, di fronte agli eventi più terribili del loro passato, si tirano indietro, li riscrivono in maniera fantasiosa, o fanno finta di niente, spianano la strada a eventi ancor più tragici. L’idea che un impeachment sarebbe “divisivo”, sostenuta da molte delle stesse persone che hanno cercato di rovesciare una chiara vittoria di Biden e Harris, dovrebbe essere “archiviata senza facoltà d’appello”, come si dice in linguaggio giuridico. E in termini pratici, una procedura d’impeachment che andasse a buon fine, ovvero con un margine di due terzi necessario per una condanna al senato, potrebbe impedire a Trump di ricoprire incarichi federali in futuro: il che limiterebbe la spirale di effetti distruttivi che potrebbe avere sulla futura corsa alla presidenza degli Stati Uniti.

Dopo l’approvazione della camera ora tocca al senato votare per condannare Trump o meno. Se, nei suoi ultimi giorni da leader della maggioranza al senato, l’ineffabile Mitch McConnell dovesse rifiutare di sottoporre a votazione questa misura, allora i senatori repubblicani che si presentano come persone con dei valori – Mitt Romney? Lisa Murkowski? Ben Sasse? Pat Toomey? Susan Collins? – dovrebbero accettare di schierarsi in aula con il gruppo democratico fino al 20 gennaio, rendendo così Chuck Schumer il leader della maggioranza, con l’autorità di stabilire il calendario delle attività in aula. Potranno comunque tornare nel gruppo dei repubblicani più tardi, se vorranno rientrare nella sua nuova versione di minoranza dopo le elezioni della Georgia (Schumer, naturalmente, diventerà comunque il leader della maggioranza, e McConnell quello della minoranza, dopo che Harris giurerà come vicepresidente degli Stati Uniti e la situazione di equilibrio 50-50 al senato si sposterà a favore dei democratici).

Reputazione

È una cosa cui le persone danno importanza, in termini sia pratici sia emotivi. I ministri e il personale della Casa Bianca stanno finalmente scoprendo che Trump si è “spinto troppo oltre”, e stanno cercando di abbandonare la sua barca che sta affondando per poggiare su basi più solide. Dimettersi per questioni di “principio” a questo punto è una mossa meschina e come tale dovrebbe essere vista. Una mossa ancor più meschina per dei ministri come Elaine Chao e Betsy DeVos, perché le sottrae dall’obbligo di prendere parte a un voto sull’attivazione del venticinquesimo emendamento per far decadere Trump dal suo incarico. L’essere rimaste con Trump, e l’aver mentito o nascosto la verità per suo conto, dovrebbero essere delle macchie di lunga durata sulla reputazione dei suoi collaboratori.

In uno straordinario video diffuso il 10 gennaio Arnold Schwarzenegger, l’ex governatore della California cresciuto nell’Austria post-nazista, ha paragonato le violenze al Campidoglio alle distruzioni antisemite della Kristallnacht del 1938, “portate avanti dall’equivalente nazista dei Proud boys”. Schwarzenegger ha dichiarato che il principale responsabile delle menzogne e dell’odio che hanno portato alle violenze è Trump. Ma, ha aggiunto, “cosa faremo di quei funzionari eletti che hanno reso possibili le sue menzogne e il suo tradimento?”.

Il momento in cui opporsi a Trump era l’inizio del 2016, quando stava prendendo il controllo del partito. O la fine dell’anno, quando si apprestava a prendere il controllo del governo. O al limite l’inizio del 2020, quando Romney è stato l’unico deputato o senatore repubblicano a votare per la sua destituzione. Vedere la luce quando questa è diventata accecante non vale (Alexandra Petri del Washington Post ha, a questo proposito, scritto un editoriale particolarmente brillante: “Non vedo altra scelta che quella di dimettersi da questa Morte Nera che sta cominciando a esplodere”). I senatori Cruz e Hawley preferirebbero essere conosciuti per altri motivi, ma l’elemento saliente del loro curriculum dovrebbe essere, per sempre, il loro ruolo nel disastro del 6 gennaio.

La stampa e i social network

Ho scritto mille volte negli ultimi anni a proposito del pericoloso attaccamento della stampa istituzionale all’idea di giornalismo di “entrambe imparziale”, e non scriverò oggi il capitolo numero 1.001. Preferisco segnalare le analisi sull’argomento di Margaret Sullivan, Jay Rosen, Greg Sargent ed Eric Boehlert, per citarne solo alcuni. La stampa “rispettabile”, i nuovi mezzi d’informazione digitali e i social network, non hanno tenuto il passo con la realtà del nostro tempo, e dovranno adattarsi molto più velocemente di quanto hanno fatto finora (su The Atlantic, Evelyn Douek ha scritto un saggio sulle azioni pratiche che le aziende di social network dovrebbero intraprendere). Altrimenti il loro effetto sarà descritto unicamente dalle ultime due parole della famigerata massima di Zuckerberg: “Move fast and break things” (muoviti velocemente e distruggi).

I meccanismi della democrazia

Le attività degne della repubblica di Vichy degli ultimi anni hanno beneficiato direttamente Donald Trump. Ma i loro bersagli indiretti erano le fondamenta della democrazia statunitense nel suo complesso, il più importante dei quali è la disponibilità dei perdenti ad accettare l’esito di un’elezione. La concessione della vittoria da parte di Al Gore, dopo la sua sconfitta 5-4 con George W. Bush nel 2000, è il caso più estremo di lealtà a questo principio. La guerra senza quartiere di Trump contro i risultati del 2020 è l’estremo opposto. Come ho scritto, pare oggi che Trump, alla fine, cederà la sua poltrona presidenziale, o ne verrà cacciato. Ma (come pare abbia detto il duca di Wellington dopo la battaglia di Waterloo) è stata una lotta fino all’ultimo. L’esito non è mai apparso scontato.

La democrazia non si mantiene da sola. È arrivata vicina a un punto di rottura. Beverly Gage ed Emily Bazelon hanno scritto un articolo sul New York Times che contiene proposte specifiche per preservarla. E ancora una volta, vorrei consigliare anche questo rapporto dell’Accademia delle arti e delle scienze degli Stati Uniti, che contiene proposte che sono al contempo di ampio respiro e pratiche.

Il principale contributo di Joe Biden e Kamala Harris alla difesa della democrazia dovrebbe essere di esercitare in buona fede i compiti dell’incarico che hanno democraticamente ottenuto. Il resto di noi deve mettersi al lavoro su questi altri fronti.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito dell’Atlantic.

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