11 gennaio 2021 16:38

È successo lentamente, e poi tutto d’un colpo. Dopo anni di litigi, i più potenti moderatori di internet hanno cacciato dalle loro piattaforme il loro troll più famoso: il presidente degli Stati Uniti. Facebook ha bloccato l’account di Donald Trump fino a nuovo ordine. Lo stesso hanno fatto Snapchat, Twitch e Shopify. Perfino uno dei provider di email della campagna elettorale di Trump lo ha tagliato fuori. Mentre scriviamo Trump può ancora contare sul suo canale YouTube, ma l’azienda ha dichiarato che prenderà provvedimenti nei suoi confronti. Per la presenza in rete del presidente degli Stati Uniti è stato un massacro.

Ma c’è una messa al bando che supera tutte le altre come valore simbolico: l’account @realDonaldTrump è stato sospeso da Twitter, la piattaforma che più di qualsiasi altra lo ha definito.

La storia dell’ultima settimana di Trump sui social network può essere raccontata in due modi. Il primo seguendo il mito a cui le piattaforme vogliono che crediamo. Secondo questa retorica, le piattaforme possiedono regolamenti e princìpi ai quali si attengono, perciò le decisioni che prendono sono valutazioni neutrali e attentamente soppesate. Il secondo modo di vedere le cose è più realistico, e considera i post e i tweet di dirigenti e portavoce dei vari siti come foglie di fico, che cercano di nascondere il fatto che la sospensione degli account del presidente siano il frutto di decisioni arbitrarie e opportunisticamente improvvise, rese possibili dalla mutazione dello scenario politico e da nuovi imperativi commerciali.

Il potere di fare tutto
Gli sforzi di presentare le loro azioni come parte di una struttura decisionale coerente e deliberata erano un tentativo di mascherare la scomoda verità che sta dietro ai nostri più importanti spazi d’espressione. E cioè che le piattaforme possono fare, e faranno, quello che vogliono. Questa settimana una ristretta manciata di potentissimi dirigenti di aziende tecnologiche si sono lentamente spinti verso il limite, incoraggiandosi a vicenda, subendo la pressione di commentatori politici e dipendenti, finché hanno deciso di prendersi per mano e oltrepassarlo.

Si è trattato di una dimostrazione di potere eccezionale, non di un’ammissione di colpevolezza. Un piccolo gruppo di persone della Silicon valley sta definendo le modalità d’espressione di ciascuno di noi, creando di fatto una zona grigia dove le regole si collocano da qualche parte tra la democrazia e il giornalismo, ma lo stanno facendo con decisioni prese all’ultimo minuto e nei modi che preferiscono.

Tra due settimane Trump non sarà più al potere, ma le piattaforme conserveranno il loro. Dovrebbero essere costrette a essere all’altezza delle motivazioni che sostengono con i loro ragionamenti ipocriti.

La decisione di Facebook ha messo Twitter in un angolo

Questa settimana le piattaforme si sono strette tra loro nel cercare di raccontare per prime cosa stava accadendo e di far credere che le loro azioni fossero coerenti con l’idea che stessero semplicemente prendendo una decisione neutrale in base ai loro regolamenti. In un certo senso hanno ragione a dire che le loro azioni sono state in linea con le regole che si sono date da sempre. Si può ragionevolmente sostenere che le democrazie hanno bisogno di sapere davvero chi sono i loro candidati e in cosa credono, anche se (o, forse, proprio quando) queste convinzioni sono aberranti. A lungo, quindi, le piattaforme hanno trattato i presidenti diversamente dagli altri utenti, in base all’idea che quel che dicono è intrinsecamente degno di diventare notizia e che sia nel pubblico interesse esserne al corrente, anche quando questo viola le loro regole.

Ma ogni piattaforma ha lasciato una sorta di “uscita di sicurezza” in caso d’incitamento alla violenza. Ogni discorso deve sempre essere valutato nel contesto, e non è stato possibile ignorare il contesto di questa settimana. Il presidente ha incitato un’insurrezione contro il Campidoglio degli Stati Uniti, che ha provocato cinque morti, ed è possibile che le violenze non siano ancora finite. L’uso che Trump ha fatto di Facebook per giustificare i disordini, più che per condannarli, ha spinto Mark Zuckerberg a credere che il rischio di continuare a permettere al presidente di postare contenuti fosse troppo alto. La decisione non è stata chiara, ma “a conti fatti”, ha detto un altro dirigente di Facebook, è stato stabilito che Trump abbia alimentato, e non ridotto, la minaccia di violenze attualmente in corso. L’azienda si è impegnata a fare una valutazione attenta e rigorosa, che ha preso in considerazione tutti i fattori in gioco.

La decisione di Facebook ha messo Twitter in un angolo. Twitter aveva originariamente bloccato l’account di Trump per dodici ore, nonostante le richieste di messa al bando fossero diventate sempre più forti. Quando Trump ha ripreso il controllo del suo account, ha subito scritto alcuni tweet piuttosto timidi che celebravano i suoi sostenitori e annunciavano che non avrebbe partecipato alla cerimonia d’insediamento di Joe Biden: tweet tipici di Trump, simili a quelli fatti in passato. Non è così, ha invece dichiarato Twitter in un lungo e dettagliato post che annunciava la sospensione permanente dell’account.

Il contesto
Il contesto di questi tweet e “soprattutto il modo in cui vengono ricevuti e interpretati su Twitter e fuori da Twitter” li rendeva equivalenti a una glorificazione della violenza. Le regole di Twitter hanno zone grigie, a quanto pare, e i richiami di Trump ai suoi sostenitori ora rientrano ormai in questa categoria. Ciò che ha stupito quanti seguono le piattaforme è stato che questa settimana i messaggi del presidente non sono stati peggiori di quelli pubblicati in precedenza.

L’atteggiamento cospiratorio diffuso in buona parte della sua base fa sì che, da molto tempo, i suoi commenti siano interpretati in modi pericolosi. Com’è accaduto, naturalmente, per gli eventi che hanno causato i disordini mortali del 6 gennaio. Gli account di Trump sono sopravvissuti a frasi quali “quando iniziano i saccheggi, iniziano le sparatorie”, postata durante le proteste di Black lives matter nell’estate 2020. Trump ha ripetutamente amplificato affermazioni a sostegno di QAnon, una teoria del complotto che l’Fbi ha definito una minaccia terroristica interna. Si è inoltre vantato della potenza nucleare americana rispetto a quella della Corea del Nord. Eppure @realDonaldTrump ha continuato a fare bella mostra di sé sui nostri schermi.

Nel frattempo il portavoce ufficiale dei talebani possiede ancora un account Twitter. Così come il presidente indiano Narendra Modi, nonostante il suo governo abbia represso il dissenso e sia all’origine di violenze nazionalistiche. L’account Facebook del presidente delle Filippine Rodrigo Duterte è vivo e vegeto, nonostante abbia sfruttato la piattaforma per attaccare in maniera violenta i giornalisti e nell’ambito della sua “guerra alla droga”. La lista potrebbe continuare. Facebook dice di aver agito contro altri leader mondiali prima di Trump, ma non ha fornito dettagli.

In questo contesto le spiegazioni delle piattaforme sembrano inconsistenti, contorte e insoddisfacenti risposte alle domande “perché lui?” e “perché adesso?”.

La versione realista
Ci rimane quindi, come spiegazione, la versione realistica di come siano stati moderati i contenuti questa settimana. I post e i tweet dei dirigenti e dei portavoce delle varie piattaforme non hanno citato il fatto che, in effetti, nel novembre 2020 gli elettori americani hanno scalzato Trump dalle piattaforme con il loro voto. Nessuno di loro ha ammesso che il presidente lascerà il suo incarico tra meno di due settimane o ha fatto cenno al cambiamento di composizione del senato, che farà sì che saranno i democratici, e non i repubblicani, a decidere le regole da applicare alle piattaforme. Non hanno parlato della crescente pressione pubblica, anche da parte di coloro che per lungo tempo hanno sostenuto la loro decisione di mantenere attivi gli account di Trump, né delle proporzioni assunte dall’agitazione interna dei loro dipendenti.

Le piattaforme sperano probabilmente che questa settimana sarà ricordata come un bizzarro incidente di percorso nella loro storia, e che Trump sia ancora una volta liquidato semplicemente come un caso speciale. Ma non possono farlo, e questo non dovrebbe accadere. Queste loro mosse sono state la dimostrazione più evidente, a oggi, del loro potere, oltre che un implicito riconoscimento del fatto che le piattaforme non solo si autogovernano, ma svolgono un ruolo di controllo e di equilibrio al proprio interno.

Guardare oltre la propria piattaforma e tenere conto del contesto quando si valuta se un post o un tweet debbano rimanere online o meno non è un’azione spregiudicata, bensì necessaria. Puntare il dito contro il fallimento di altre istituzioni, tra cui il congresso degli Stati Uniti o la stampa, non è una scusa. È vero che è necessario sottoporre a valutazione anche queste istituzioni, ma la cosa non significa assolvere le piattaforme dalle loro responsabilità. Non basta dire che il leader del mondo libero avrà sempre una piattaforma. Se vuole incitare alla violenza, che la trovi altrove.

La messa al bando di Trump non dev’essere vista come la fine di un’epoca. Occorre che sia l’inizio di una nuova era, e non dobbiamo rinunciare al mito di una moderazione dei contenuti che dipinga un futuro migliore. Questa non sarà l’ultima volta che un leader userà queste piattaforme per incitare alla violenza. I capi della Silicon Valley dovrebbero dimostrare, quindi, che non è stata solo l’opportunità politica e l’unità d’intenti tra le grandi aziende tecnologiche a spingerli ad agire questa settimana. Nel farlo, potranno sviluppare quella struttura decisionale coerente e affidabile che, da quel che sostengono, esiste già, e affidarsi a sostegni più solidi.

(Traduzione di Federico Ferrone)

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata sull’Atlantic.

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