A Salina il profumo di gelsomino, di fico e di uva malvasia appena raccolta riempiva l’aria in questo ultimo scorcio d’estate. Tra l’ibisco, la buganvillea e i capperi che circondavano la mia terrazza scorgevo il profilo dentato di Panarea, Stromboli con il suo pennacchio di fumo. Ma anziché godermi tutta questa bellezza e arrendermi all’ozio isolano, ho scelto di passare le mie giornate chiuso all’interno di una sala buia a guardare dei film.

Adesso, mentre scrivo, sono in mare aperto. Letteralmente: mi trovo da qualche parte tra Stromboli e Napoli. Sono di ritorno dal Salina Doc Fest, [ormai alla sua settima edizione][1], un festival accogliente e colto ospitato in un’isola accogliente e colta. Diretto da Giovanna Taviani, il Doc Fest rappresentava una buona occasione per tastare lo stato di salute del documentario narrativo italiano dopo il Leone d’Oro a Sacro gra di Gianfranco Rosi.

Emerge che il paziente è in discreta forma malgrado un sistema produttivo e distributivo che concede poche risorse e poco spazio a documentari innovativi. Infatti, tra i sette documentari di registi italiani passati in concorso, uno era una produzione francese al cento per cento, mentre altri tre erano delle coproduzioni italo-francesi. È anche grazie ad Arte, France 3 e Zdf che abbiamo la possibilità di guardare documentari intelligenti realizzati da italiani sull’Italia.

In un paese che non sempre considera il cinema del reale un bene da tutelare, il tema di quest’anno era “Il bene comune”. Immagino che i film in concorso siano stati selezionati perché erano buoni, non perché illustravano il tema. Ma è vero che un certo filo conduttore c’era. Si trattava della constatazione che qualcosa si è rotto nella società italiana, nelle sue famiglie, la sua vita politica, la sua memoria storica; che il bene comune sta diventando un concetto nostalgico, oppure qualcosa che non si può sempre raggiungere con i vecchi metodi, con il partito, la chiesa, l’associazionismo.

In

[Il muro e la bambina][2] di Silvia Staderoli, film premiato da una giuria popolare presieduta da Emma Dante, la regista intreccia in modo intrigante personale e pubblico, il divorzio dei suoi genitori, la schizofrenia di suo padre, e il vuoto morale e urbanistico di una città (La Spezia) che viveva producendo carri armati e navi da guerra, con un porto dominato da un lungo muro che divideva gli spezzini dal mare. Il progetto poteva sembrare narcisistico, ma il nesso tra malattia metropolitana e trauma privato era tratteggiato senza calcare la mano.

Due documentari palermitani costituiscono un triste before and after della città siciliana. Il secondo tempo di Pierfrancesco Li Donni mette a confronto l’atmosfera elettrica di quei 57 giorni che intercorrono tra la morte di Giovanni Falcone e quella di Paolo Borsellino, quando a Palermo si è scatenata una rivolta della società civile contro il potere della Mafia, con l’indifferenza e i vuoti di memoria di oggi.

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Con il dovuto distacco ironico, Giuseppe Schillaci offre [in Apolitics now!][3] il ritratto di una campagna elettorale, quella del maggio 2012 per il sindaco di Palermo, in cui la politica è ridotta a avanspettacolo da due soldi, un teatrino da cartapesta senza spessore.

Ma per me la vera rivelazione del festival è stata Mirage a l’italienne di Alessandra Celesia, un’attrice e regista teatrale italiana trapiantata a Parigi che ha diretto il suo primo documentario (Le libraire de Belfast) nel 2012. Questa sua opera seconda - prodotta interamente in Francia - segue cinque torinesi in crisi (economica, affettiva, esistenziale) che partono per un paesino sperduto dell’Alaska, attirati da una offerta di lavoro vista su un tram.

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È autentica, quest’offerta, o è il crudele esperimento di un regista che mira a mettere in scena un’Isola dei famosi all’inverso – diciamo una Penisola dei poveracci? Il dubbio ci accompagna per tutto il film, ma alla fine la solidarietà ritrovata di cinque anime perse in una terra fredda e lontana rende la domanda irrilevante. Forse Celesia ci sta dicendo che a volte la realtà dev’essere manipolata per far emergere quello che ha di bello, di poetico.

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