14 maggio 2015 15:42

Raggiante. Sia il sole sopra la Croisette, sia il sorriso di Ingrid Bergman nel ritratto di David Seymour scelto come manifesto del 68° festival di Cannes. L’anno scorso era la gigantografia di Marcello Mastroianni a dominare il Palais du Cinéma. Forse queste immagini dall’età d’oro del cinema d’autore europeo nascono dalla nostalgia per un’epoca in cui i divi erano ancora divi e il cinema aveva un po’ di magia.

La prima giornata di Cannes ha cercato di risvegliare questa magia, con esiti altalenanti. Il primo film in concorso, Umimachi diary (Our little sister) del giapponese Hirokazu Kore-eda, ha una forte impronta fiabesca e racconta la storia di tre sorelle che decidono di adottare un’adolescente. Le ragazze vivono tutte insieme in una casa vecchia, con un albicocco giapponese in giardino, fonte di un liquore fatto in casa da generazioni di donne. Ma, nonostante qualche scena toccante e una fotografia cristallina come una mattina di maggio, il sapore dolciastro del film di Kore-eda, film basato su un manga sentimentale (e si vede), fa rimpiangere l’understatement e la calma devastante del suo compatriota Yasujirō Ozu.

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C’è parecchia magia nel Racconto dei racconti di Matteo Garrone, adattamento di tre fiabe contenute nella raccolta seicentesca Lo cunto de li cunti dell’autore napoletano Giambattista Basile. Ma è una magia inaffidabile, capricciosa come la decisione di una strega cinghiale di ridare la bellezza della gioventù a una vecchietta solo perché l’ha fatta ridere. Però bisogna dire che Il racconto dei racconti è grande cinema. I quadri in movimento del direttore della fotografia Peter Suschitzky sono sospesi tra Giorgione, Goya e Francis Bacon. I costumi e gli interni (per lo più si tratta di luoghi veri, come il castello di Sammezzano, in provincia di Firenze) derivano dalla grande tradizione artigianale del cinema italiano. La colonna sonora di Alexandre Desplat, spesso ironicamente in contrasto con l’horror e la tragedia del racconto, è degna di Nino Rota.

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A differenza di Goffredo Fofi, che apprezza la struttura barocca del film di Garrone, ma ne critica la mancanza di coerenza, mi sono lasciato coinvolgere. Anche se, come Fofi, mi sono chiesto più volte dove volesse andare a parare Matteo Garrone. Alla fine credo che la sua impresa – piuttosto folle, dato il grande budget, e il fatto che Garrone si è esposto in prima persona per fare il film – è stata quella di dichiarare che le fiabe non hanno bisogno di essere aggiornate. Non servono operazioni postmoderne in stile Game of thrones né revisionismi politicamente corretti alla Pixar, per rivelare il potere inquietante di queste fiabe e la loro strana modernità: basta raccontarle. Quando vediamo una principessa un po’ vanitosa ma anche sensibile che viene trascinata nella tana di un orco tappezzata di ossa rosicchiate, non abbiamo bisogno di metafore o chiavi di lettura psicoanalitiche per condividere il terrore della ragazza.

Strana scelta quella del film di apertura, La tête haute di Emmanuelle Bercot. È come se i fratelli Dardenne avessero deciso di girare un lungo spot per i servizi sociali francesi e il sistema giudiziario minorile. In realtà, il film è basato su un dramma vero, un po’ ingenuo, con Catherine Deneuve – ultimamente sempre più brava – nel ruolo della giudice che segue per dieci anni un ragazzo problematico, un piccolo delinquente, ed è combattuta tra gli obblighi imposti dal suo ruolo istituzionale e l’istinto materno di salvarlo da se stesso. La battuta migliore è: “Sì, ho rubato. Sì ho picchiato. Ma non ho mai rubato picchiando”.

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Passiamo a Mad Max: fury road. Il quarto film della serie, a trent’anni da Mad Max oltre la sfera del tuono. Che dire? Le sequenze di azione, gli inseguimenti tra veicoli mutanti, o mutoid, postapocalittici si ripetono quasi senza sosta (giusto il tempo per accennare una fragile storia di amore tra il lupo solitario Max e la principessa guerriera, interpretata da Charlize Theron).

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Esci con i lividi su tutto il corpo e il senso critico spappolato. Mi sono arreso. La mia rivincita? Il fatto che domani non mi ricorderò niente del film.

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