26 ottobre 2016 12:34

Gli interventi sulle pensioni approvati dal consiglio dei ministri nella legge di stabilità occupano ampio spazio nel dibattito politico e pubblico italiano. I provvedimenti abbracciano diversi aspetti del sistema pensionistico: dall’anticipo della pensione all’aumento delle quattordicesime per le pensioni al minimo, dall’allargamento della no tax area all’incentivo fiscale per le pensioni integrative usate per percepire in anticipo le rendite.

Sono interventi diversi che, al netto della politica dei bonus come nel caso della quattordicesima, celano una strategia ben più strutturale: sottrarre le pensioni all’intervento pubblico. Una tendenza che nei fatti si traduce non solo nella privatizzazione del sistema previdenziale, ma anche in una sua “individualizzazione”: ciascuno è responsabile delle proprie scelte e della propria storia, per tutto il resto c’è il mercato.

La parte finora più discussa è sicuramente quella relativa all’anticipo pensionistico, il cosiddetto Ape, che tuttavia ha subìto modifiche rispetto a quanto presentato poche settimane fa alle parti sociali – i sindacati. L’Ape dovrebbe mitigare gli effetti dell’innalzamento dell’età pensionabile introdotto dalla riforma Fornero, senza stravolgerne o metterne in discussione l’impianto.

La riforma dopo la crisi
Nel 2011, infatti, il governo Monti aveva approvato il pacchetto Salva Italia contenente la prima enorme riforma strutturale dall’inizio della crisi del 2008, quella delle pensioni.

Da un lato, la riforma ha aumentato l’età pensionabile che, nel 2016, è per le donne 64 anni e nove mesi, fino al minimo di 66 anni (a partire dal 2018). Gli uomini possono invece andare in pensione a 66 anni.

Inoltre, è abolita la pensione di anzianità, sostituita dal regime della pensione anticipata: indipendentemente dall’età anagrafica, un lavoratore può scegliere di andare in pensione se possiede (nel 2016) 42 anni e dieci mesi di contributi se uomo, 41 anni e dieci mesi se donna.

Se l’anticipo pensionistico lo pagasse l’Inps, farebbe aumentare la spesa pubblica e di conseguenza il deficit

D’altro lato, la riforma Fornero ha imposto che a partire dal 2012 le annualità per i lavoratori con già 18 anni di contributi nel 1995 (essenzialmente persone anziane e benestanti) sarebbero state accumulate come contributive e non come retributive. Ma è bene ricordare che il passaggio al sistema contributivo è avvenuto in Italia non già con la riforma Fornero bensì con la riforma Dini che impose il passaggio al contributivo per tutti quelli che non avevano almeno 18 anni di contributi nel 1995.

Abbiamo avuto quindi a che fare con un regime rigido e con una discontinuità repentina; con evidenti ripercussioni anche sul mercato del lavoro, dove l’occupazione aumenta visibilmente solo per la fascia di età superiore ai 50 anni già a partire dal 2013.

Apparentemente, il governo sembra aver colto la necessità di un correttivo che permetta l’anticipo della pensione, decidendo tuttavia di realizzarlo tramite prestiti privati al fine di non far pesare il provvedimento sulle casse dello stato. Prima ancora di entrare nel merito del provvedimento, è bene precisare che la scelta di coinvolgere banche e assicurazioni dipende essenzialmente dai vincoli di bilancio imposti dalle regole europee: se l’anticipo pensionistico lo pagasse direttamente l’Inps, esso andrebbe ad aumentare la spesa pubblica imputata a un determinato anno fiscale e di conseguenza il deficit corrente.

L’anticipo pensionistico
Per evitare i vincoli il governo propone a chi ha tra i 63 e i 66 anni e sette mesi e vent’anni di contributi di anticipare la pensione contraendo un mutuo con una banca che, tramite l’Inps, verserà la rata mensile per i tre anni (o meno) di anticipo. Ognuno di questi passaggi comporta diversi costi per chi sceglie il pensionamento anticipato, con alcune eccezioni che vedremo fra poco.

Innanzitutto, l’assegno pensionistico subirà in modo permanente, quindi anche nel periodo successivo all’anticipo, un taglio a monte di circa il 3,2 per cento. Ma oltre a questo, il mutuo comporta due ulteriori costi: gli interessi e l’assicurazione sul prestito.

L’aumento degli anni di contribuzione è una novità che di fatto restringe il numero dei beneficiari

Come quando si richiede qualsiasi mutuo o prestito bisognerà corrispondere degli interessi alla banca creditrice. Inoltre, per evitare che il debito ricada sugli eredi nel caso di morte del debitore prima della completa restituzione, il mutuo deve essere garantito: nell’eventualità di decesso, sarà l’assicurazione a pagare la parte ancora dovuta alla banca.

Ma il premio assicurativo cresce all’aumentare della probabilità di decesso anticipato rispetto alla restituzione del debito. In assenza di un accordo tra stato e assicurazioni, è evidente che dovranno pagare di più i soggetti con un’aspettativa di vita più bassa o che si troveranno in difficoltà a restituire il mutuo. Un primo esempio di come il meccanismo rischi di gravare soprattutto sui più deboli.

Ed è proprio sulle categorie più deboli che governo e sindacati hanno cercato inizialmente un’intesa, disattesa dal governo, come vedremo in seguito. Si parla in questo caso di Ape “agevolato” o “social” per alcuni beneficiari che non dovrebbero subire il taglio dell’assegno pensionistico a monte né i costi legati al mutuo e all’assicurazione. Come si legge nel verbale firmato dal governo e dai sindacati, l’Ape agevolato si otterrà attraverso “la definizione di bonus fiscali aggiuntivi o di trasferimenti monetari diretti, volti a garantire un ‘reddito ponte’ interamente a carico dello stato per un ammontare prefissato (ferma restando la facoltà dell’individuo di richiedere una somma maggiore)”. Dalle ultime novità riportate in mattinata dal Sole 24 ore, che dispone in esclusiva delle bozze della legge di bilancio, chi “beneficia” dell’Ape agevolato potrà ricevere redditi da lavoro fino a ottomila euro, ma non altri ammortizzatori sociali (assegni di vario genere di natura assistenziale). All’Ape social è destinato un finanziamento di 300 milioni il primo anno fino a oltre 600 nel secondo e terzo anno.

Riguardo la platea che ne beneficerà, stando alla proposta del governo, dovrebbero farne parte i soggetti che hanno diritto a un assegno pensionistico non superiore a 1.500 euro lordi che si trovano in “condizioni di maggior bisogno”. In particolare, rientrano in queste categorie i disoccupati di lungo periodo (almeno un anno) senza ammortizzatori sociali e i disabili che hanno versato almeno trent’anni di contributi, ma anche coloro che svolgono tutt’oggi un lavoro faticoso e hanno 36 anni di contributi versati.

L’aumento degli anni di contribuzione – era inizialmente di vent’anni (come per l’Ape volontario) – è una novità della legge di stabilità che di fatto restringe il numero dei beneficiari. Tra i lavori usuranti che danno diritto all’Ape social con trentasei anni di contributi rientrano operai dell’edilizia, del settore marittimo e infermieristico, gli scavatori, maestri e maestre della scuola dell’infanzia, i macchinisti, i facchini, gli autisti di mezzi pesanti.

Una manifestazione contro il progetto della riforma sulle pensioni a Roma, il 18 febbraio 2016. (Riccardo Antimiani, Camera press/Contrasto)

Gli stessi criteri si applicheranno per i cosiddetti lavoratori precoci, quelli che hanno lavorato dodici mesi anche non continuativi prima dei 19 anni e con trent’anni di contributi.

Non basta: sono molti i dettagli ancora mancanti soprattutto sull’entità dei costi per chi non può accedere all’Ape agevolato. Oltre a quanto emerso dalla legge di stabilità – di cui non sono circolati né documenti né bozze – bisognerà aspettare i provvedimenti attuativi. Stando alla legge di stabilità, il costo per i lavoratori dovrebbe aggirarsi intorno al 4,6-4,7 per cento della pensione.

Lontano dal dettato della costituzione
Scegliendo di andare in pensione anticipatamente, il lavoratore riceverà su più anni quel che gli sarebbe spettato come monte pensione fino al decesso. In media, ciascun pensionando in anticipo percepirebbe un assegno mensile ridotto del 3,2 per cento rispetto al suo valore pieno (che avrebbe percepito andando in pensione secondo la legge Fornero).

In più, come già detto, dovrà pagare gli interessi sul prestito e per l’assicurazione. Quindi, secondo i calcoli del governo (non pubblici) il costo mensile aumenterebbe fino al 6 per cento (se i tassi applicati dalle banche e dalle assicurazioni non superassero complessivamente il 2,8 per cento). Ma poiché sugli interessi passivi si applica una detrazione fiscale, cioè si sottraggono dal reddito imponibile, allora il costo dovrebbe essere intorno al 4,5-4,6 per cento. Ovviamente questi calcoli dipendono dal valore dei tassi e da quello della detrazione fiscale che il governo intende adottare con i decreti attuativi che seguiranno la legge di stabilità. Sempre secondo le indiscrezioni del Sole 24 ore, la detrazione sugli interessi dovrebbe arrivare al 50 per cento, mentre sui tassi bisognerà attendere gli accordi con Abi e Ania.

Allo stesso tempo, però, emerge la totale assenza di riferimenti a un sistema che sia progressivo, in cui cioè i costi crescono più che proporzionalmente al crescere dell’assegno pensionistico. Seppure in un contesto in cui la linea di governo è quella di sottrarre alla sfera pubblica le pensioni, agendo sull’indebitamento privato, sarebbe stato possibile inserire almeno un elemento che restituisse alla politica il suo obiettivo, quello costituzionalmente riconosciuto della uguaglianza sostanziale.

Ma sono questioni che non sembrano sfiorare la linea politica del governo e che rendono l’Ape di scarso interesse per gli aspiranti pensionati italiani. Oltre al restringersi della platea che ha diritto all’Ape agevolato, ci si chiede: chi potrebbe essere interessato da un anticipo pensionistico così costoso? Per esempio, solo chi ha pensioni molto elevate e chi si trova nella posizione di poter andare in pensione anticipatamente ma svolgendo un lavoro autonomo. In questo ultimo caso non ci sarebbe il cumulo tra assegno pensionistico e altri redditi da lavoro, quindi i costi del pensionamento anticipato sarebbero più limitati rispetto a chi invece avrà solo la pensione.

Rendita integrativa temporanea anticipata (Rita)
Il pacchetto pensioni contiene altre novità forse ancora più preoccupanti dell’Ape, tra cui spicca la rendita integrativa temporanea anticipata, per gli amici Rita. Poiché, come si è detto, l’Ape non appare come un compromesso interessante, dati mutuo e assicurazione, il governo propone ai lavoratori che hanno negli anni “maturato un montante in un fondo integrativo di attingere prima dell’età di pensionamento a tale montante, volontariamente e nella misura scelta, per poter usufruire di una rendita temporanea per il periodo che manca alla maturazione del diritto alla pensione (età del pensionamento di vecchiaia)”.

Sembra riaffermarsi il teorema della moltiplicazione dei diritti attraverso la loro divisione in più piccole parti

Così i lavoratori potrebbero usare i soldi che hanno risparmiato e che hanno ora in pensioni integrative per sopportare i costi della rata di anticipo dentro lo schema Ape. Oppure, sfuggire ai costi dell’Ape e dividere, tra oggi e domani, quella che sarebbe stata l’integrazione alla pensione – pagata versando ogni santo mese parte del proprio reddito al fondo integrativo.

Sembra riaffermarsi il teorema della moltiplicazione dei diritti attraverso la loro divisione in più piccole parti. Il diritto alla pensione integrativa di domani, pagata dal lavoratore e che si concretizza nel flusso di reddito da aggiungere alla pensione base, è suddiviso in due diritti più piccoli: la pensione anticipata oggi e la pensione domani.

Per rendere appetibile questo meccanismo, il governo si impegna ovviamente a introdurre un’agevolazione fiscale – meno tasse – per queste anticipazioni. Lo stesso farà per chi deciderà di usare il proprio trattamento di fine rapporto (tfr), cioè il reddito di proprietà del lavoratore accantonato presso l’azienda, per coprire il periodo di anticipo pensionistico. Insomma, parte del salario differito, che sia tfr o pensione integrativa, andrà a remunerare il sistema assicurativo: rieccoci a uno spostamento sostanziale di risorse dal lavoro al sistema creditizio e assicurativo.

Ancora: nel verbale siglato con i sindacati e non smentito dalla legge di stabilità si parla di quale possa essere il ruolo delle imprese riguardo l’anticipo pensionistico. Il governo fa due proposte in merito.

Secondo la prima, le imprese in fase di ristrutturazione aziendale e in accordo con i lavoratori possono versare all’Inps contributi in più così “da produrre un aumento della pensione tale da compensare gli oneri relativi alla concessione dell’Ape”. Ci si affida in prima battuta alla generosità delle aziende, le stesse che poi sfruttano il lavoro accessorio anche nei casi dichiaratamente non ammessi dalla legge.

Rimane la seconda proposta che ancora una volta sostiene con tanto di incentivi fiscali la previdenza complementare privata. In particolare, il governo sostiene di volersi impegnare a introdurre agevolazioni fiscali – si legga di nuovo taglio delle tasse – per le imprese disposte a versare contributi per i lavoratori in forme di previdenza complementare.

Il settore pubblico alle corde
Insomma, se le imprese decidono di versare qualcosa in più per i lavoratori nei fondi privati allora il governo è disposto a metterci dei soldi (che poi sono quelli degli altri lavoratori che magari non accedono ai fondi privati); se invece si decide di fare la stessa cosa ma versando nelle casse pubbliche, nessuno sconto all’orizzonte.

Una deriva paradigmatica di come si tenda in ogni occasione a favorire il privato e a mettere alle corde il settore pubblico, nonostante ormai risulti condivisa e provata l’idea secondo cui il sistema della previdenza complementare privata non è né più efficiente né più efficace, come spiega in questo articolo Michele Raitano, dell’università Sapienza di Roma.

A completamento della proposta, il governo prevede bonus e agevolazioni per le attuali pensioni basse. Innanzitutto, ai pensionati di più di 74 anni è estesa la no tax area, cioè l’abolizione delle imposte sul reddito, fino a un reddito pensionistico annuale di 8.125 euro, così come avviene per i lavoratori dipendenti. Un provvedimento ben poco organico considerando che si rivolge a poche persone; in Italia, la speranza di vita è di poco superiore agli 80 anni.

Infine, è previsto l’aumento delle quattordicesime per chi percepisce una pensione superiore 1,5 volte all’assegno minimo (circa 700 euro al mese) e la loro estensione a chi invece percepisce fino al doppio del minimo, quindi poco meno di mille euro al mese. Quest’ultimo provvedimento riguarda esclusivamente le pensioni di invalidità, vecchiaia e superstiti, quindi non quelle assistenziali.

Di quanto saranno aumentate le pensioni? Per chi comincerà a percepire la quattordicesima, si tratta di circa 400 euro, mentre per coloro che hanno diritto alla maggiorazione, del 30 per cento, l’incremento sarà tra i cento e 150 euro.

Non stupisce che molti abbiano tacciato questo provvedimento di propaganda elettorale in vista del referendum costituzionale di dicembre. Da un lato, siccome circa la metà dei pensionati percepisce meno di mille euro al mese di pensione, servirebbero provvedimenti ben più ampi. Soprattutto, considerando i molti tagli alla sanità e più in generale allo stato sociale che dovranno tamponare i singoli cittadini con le proprie risorse, un aumento di 80 euro o poco più al mese è ben presto annullato dai tagli.

Dall’altro lato, perché a guardare i flussi elettorali, i pensionati mostrano tassi di partecipazione al voto elevati rispetto alla media nazionale, quindi elargire fondi significa spesso attrarre consenso.

A copertura di queste disposizioni, oltre i redditi e risparmi dei cittadini, il governo dichiara di voler stanziare sette miliardi in tre anni, di cui 1,9 miliardi per il 2017.

I giovani e la pensione
Ci sarebbe infine la seconda parte delle proposte del governo, quella che riguarda l’(in)adeguatezza delle pensioni (future e presunte) dei giovani lavoratori con redditi bassi e discontinui. È questo il nodo centrale della riforma Fornero che peserà sulla sostenibilità dell’intero sistema previdenziale, sul benessere futuro delle attuali giovani generazioni.

Infatti, per quella fascia sotto i 40 anni che andrà in pensione con il sistema contributivo – ma che oggi vive se non in disoccupazione, di part-time involontario o voucher o in una tra le svariate forme di lavoro instabile e con pochi diritti sociali economici e contributivi – la pensione, pur non anticipata, sarà un miraggio.

Non per destino, ma perché il basso costo dei contratti precari risiede anche nei bassi contributi ai fini previdenziali versati dalle imprese ai lavoratori. Per fare due conti, un caso estremo, ma ormai sempre troppo comune, è quello di chi svolge lavori occasionali, retribuiti a voucher, e non ha altri redditi da lavoro. Stando ai dati, mediamente questi lavoratori non riscuotono più di 29 voucher all’anno, il cui contributo previdenziale del 13 per cento non è sufficiente neppure per coprire un mese di contributi. La pensione sarà un bonus per Natale.

A conti fatti, il dramma di un’economia sempre più occasionale e precaria non pare realmente preoccupare il governo che infatti rimanda il tema a data da definirsi.

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