30 novembre 2015 18:08

Cos’è. Master of none è una serie di Aziz Ansari e Alan Yang, cioè uno dei protagonisti e uno degli autori di Parks and recreation. La serie è prodotta e trasmessa da Netflix: i dieci episodi di mezz’ora ciascuno sono usciti il 6 novembre scorso, e sono disponibili anche con doppiaggio in italiano.

Master of none racconta la vita di Dev Shah (Ansari), attore newyorchese sulla trentina di origine indiana, alle prese con il lavoro (piccole parti, pubblicità), gli amici, i genitori, l’amore. I migliori amici di Dev sono lo spilungone bizzarro Arnold (Eric Wereheim); Brian, figlio di taiwanesi, entusiasta e belloccio; la schietta Denise (Lena Waithe) afroamericana e lesbica; il collega attore malinconico Benjamin (H. Jon Benjamin). Ci sarà poi una fidanzata, Rachel (Noël Wells).

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Com’è. È una commedia leggera, decisamente lontana da una situation comedy in stile Seinfeld. Non ci sono nemmeno, come c’erano in Seinfeld, ci sono in Louie o in Inside Amy Schumer, degli inserti di stand up comedy per ricordarci che questa è la serie di un comico monologhista, con tanto di momenti esilaranti e battute da ricordare. C’è invece una specie di profondità superficiale, un modo di raccontare i rapporti tra le persone con la morbidezza di chi un’idea chiara non se l’è ancora fatta. I pasti e i cocktail tra amici, con queste discussioni sconclusionate che sfiorano di sponda gli argomenti centrali della vita di ciascuno, non evolvono in scene madri, pessime figure, liti furibonde o fughe rocambolesche: restano spesso dove stanno, come fossero una versione più serena di certi racconti di Raymond Carver. Prevale sempre un mezzo tono affettuoso, e diventa presto chiaro che l’Ansari dei monologhi o di Parks and recreation qui non ci sono. C’è la mimica, c’è il modo, c’è un’intenzione curiosa, infantile e insieme molto acuta, ma il resto è tutto più smussato, senza picchi, senza strappi, come se il limbo esistenziale del protagonista avesse coinvolto la forma del racconto.

Perché vederla. Master of none richiede tre puntate di pazienza per arrivare. Non è detto che poi piaccia, ma quando si capisce qual è il suo punto di forza può diventare davvero gustosa. Netflix, con la sua strategia per cui la stagione intera è disponibile lo stesso giorno, ha eliminato l’obbligo di una scrittura per colpi di scena tipica di chi ha bisogno di arpionare il pubblico per la settimana successiva: questo è un esempio tipico del fenomeno, ma declinato in una forma diversa da quella di House of cards.

Master of none racconta famiglia, amore, morte, razzismo, corteggiamento, tutto senza essere mai perentorio, senza certezze, senza voler dire nulla di definitivo. Allo stesso tempo però Ansari e Yang non hanno paura di niente in termini di temi e situazioni. Con questa modalità dolce raccontano di un tale scoperto a masturbarsi sulla metropolitana, e non sono banali né pesanti né grotteschi; mostrano l’inizio di una storia d’amore, con tanto di diatriba classica tra tubetto del dentifricio spremuto dal fondo o da sopra, e lo fanno con originalità (Ansari e Wells nella commedia romantica sono perfetti); toccano il tema etnico e maneggiano lo stereotipo senza abbatterlo a spallate o cavalcarlo.

I personaggi risultano molto naturali, anche perché alcuni sono esattamente così nella vita reale, amicizie comprese. Non è da sottovalutare la selezione musicale, non troppo oscura e mai così banale da diventare scontata. S’intravede anche un concerto dell’ottimo Father John Misty. Ma è davvero la leggiadria della serie a fare metà del lavoro, perché quando in una scena ballano tutti contenti Africa dei Toto senza sembrare vecchi e sfigati, è evidente che c’è del miracoloso.

Perché non vederla. È una serie che mostra New York e della gente un po’ creativa con tanta voglia di chiacchierare al bar o in case arredate con un certo stile, un po’ informali e un po’ raffinate. Le scelte musicali sono rétro ma anche contemporanee, modaiole senza esagerare, e in questo senso la scena in cui Dev porta una ragazza a vedere Father John Misty è chirurgica. Quello in cui si svolge Master of none è insomma un mondo pieno di contemporaneità metropolitana, dove i riferimenti sono quelli perfetti per legarsi a un pubblico abbonato a Netflix, tra spostamenti con Uber, cibo scelto con Yelp, relazioni che si vivono su Whatsapp eccetera: tutto è così prevedibilmente “giusto” che può risultare un po’ precotto. Se poi non ci si fa prendere da questo tono medio, dalla rinuncia programmatica ai colpi di scena e alle prese di posizione, il tutto può risultare troppo molle per meritare cinque ore del vostro tempo.

Una battuta. Sai cosa fa venire il glutine? Il lupus. Il glutine causa il lupus.

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