Cos’è. È un film di Jay Roach (Ti presento i miei, Mi presenti i tuoi?, Austin Powers. La spia che ci provava) che racconta la vita dello sceneggiatore Dalton Trumbo, militante di sinistra che si scontra con la commissione per le attività antiamericane (Huac), finisce prima in carcere, poi nella lista nera dei nemici della nazione, per vivere quasi come un reietto lavorando sotto falso nome per anni. Riuscirà a vincere due Oscar, uno dei quali per Vacanze romane. Il film è tratto dalla biografia di Trumbo del 1977 scritta da Bruce Cook.
Bryan Cranston è Trumbo, Diane Lane è sua moglie, Elle Fanning la figlia. Helen Mirren interpreta l’influente giornalista di spettacolo Hedda Hopper. David James Elliott è John Wayne, il comico Louis C.K. è Arlen Hird (un altro dei proscritti), e nel ruolo del produttore Frank King c’è John Goodman. La fotografia è di Jim Denault e la musica di Theodore Shapiro.
Com’è. L’ultima parola è un film molto sobrio ed equilibrato, anche troppo. Cranston recita con quel tipo di immedesimazione vecchia scuola, lontana dall’enfasi virtuosistica di certe parti da Oscar. Per il resto il film ha tutte le caratteristiche per essere il tipo di prodotto lodevole che merita uno spazio particolare nella considerazione del pubblico progressista: c’è il tema politico della vessazione, la denuncia di una pagina buia della politica e del costume statunitensi, e c’è Hollywood negli anni del secondo dopoguerra con un cast pieno di attori noti e capaci. Il film è ben recitato: oltre al protagonista, spicca un sempre godibilissimo John Goodman.
La vicenda di Trumbo è giocata sui due piani della vita personale e di quella professionale, che rimangono separati fino al suo inserimento nella lista nera; dopo di che la casa diventa una specie di trincea, gli amici degli alleati, figli e moglie dei commilitoni. Il tono del film è molto più lieve di quello che ci si potrebbe aspettare dal tema.
Perché vederlo. Hollywood è da sempre un’industria atipica rispetto al panorama politico e sociale statunitense: la California del cinema è fin dai primi del novecento un posto di immigrati europei, comunisti, cattolici, ebrei, gente dalla moralità decisamente più mobile rispetto alla media nazionale bianca, anglosassone e protestante.
Il primo scontro tra i conservatori e Hollywood risale al codice di autoregolamentazione Hays degli anni trenta, strumento volto a limitare i contenuti inopportuni; il secondo grande attacco ai valori progressisti diffusi dal cinema è l’interessamento dell’Huac raccontato da questo film. L’ultima parola descrive bene la normalità quasi impercettibile di questa offensiva, e lo fa raccontando la storia di un uomo tutto sommato allegro, il che è abbastanza atipico per una storia di ingiustizia e vessazione.
Chi ha amato Breaking bad è affezionato a Brian Cranston, che qui conferma le sue doti di grande caratterista, in quel senso nobile che rimanda a figure come Edward G. Robinson. Vale lo stesso discorso per John Goodman, che regala una di quelle sue piccole prove impeccabili. Poi c’è il gusto tipico dei film storici sullo spettacolo, lo stesso della serie Vinyl, per cui si vedono John Wayne, Kirk Douglas o Otto Preminger ricostruiti come persone e non personaggi.
Perché non vederlo. Ci sono degli argomenti che meritano di essere trattati in astratto, suscitano a priori una certa curiosità, ma hanno bisogno di un po’ di birra per reggere la forma del racconto cinematografico.
Jay Roach sembra impegnarsi a non commettere errori di eccessiva drammatizzazione, a non dare al film un tono troppo cupo, a lasciare a Trumbo uno spirito più giocoso e battagliero, al limite nevrotico, ma mai da martire piagnucolante. Se questa storia fosse fitta di eventi emozionanti, questo potrebbe bastare. Invece quello che succede non è così eclatante, per quanto spiacevole: stiamo comunque parlando di sceneggiatori di Hollywood che vanno in carcere, faticano a lavorare e si deprimono, non di bombardamenti e carestia, né di grandi amori o sparatorie.
Il risultato è talmente piano nello svolgimento da portare presto al tedio. Pur apprezzando attori, tema, figure descritte e ambiente in cui si muovono, ci si annoia al punto di sperare in un evento clamoroso qualsiasi: un tradimento, un omicidio, una comparsata di Tom Cruise, l’avvento di un uragano, un gigantesco sciame di cavallette sopra la scritta Hollywood. Ma è tutto inutile e le emozioni mancano.
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