16 giugno 2017 14:47

Capita sempre più spesso di leggere di qualche pianta o animale che ha raggiunto un ecosistema lontano dal proprio, nella stiva di una nave o portato da qualche incosciente, e ha prodotto disastri, esplosioni di alghe, morie di palme o di ulivi, stermini di specie autoctone. Gli ecosistemi in genere sanno rispondere in tempi sorprendentemente rapidi agli scompensi. Ma se arriva una variabile nuova e inaspettata, capita che si faccia strada con grande facilità e sembri inarrestabile.

Quando si progetta un videogioco tradizionale, offline, questi elementi inaspettati non ci sono. Il giocatore può muoversi in un ambiente definito, percorrere lo spazio di gioco come preferisce e fare quello che vuole, ma non sarà mai in grado di alterare le fondamenta che sono state programmate prima del suo arrivo. L’ambiente di gioco in questi casi è architettura: salvo problemi strutturali, cioè errori non visti prima dell’uscita, starà in piedi. Poi magari il gioco non sarà soddisfacente, non avrà successo, risulterà sciatto, noioso, troppo breve, ma non potrà crollare sotto le azioni di un giocatore.

La stessa cosa invece non vale per i mog (massive online game), i grandi giochi online dove una comunità di utenti condivide uno spazio, e sia l’ambiente sia i giocatori cambiano nel corso del tempo. In genere in un grande gioco online ciascun giocatore migliora partita dopo partita, missione dopo missione, esattamente come chi si allena ogni giorno in qualsiasi attività fisica. Allo stesso tempo l’ambiente viene arricchito di nuovi contenuti con una certa scadenza, in modo da fornire attività da svolgere ed esperienze da vivere alla moltitudine di utenti che lo abitano. Passati alcuni mesi, questo produce il problema della frustrazione dei nuovi arrivati: che voglia potrò mai avere io di entrare da principiante in un mondo che è nato e cresciuto senza di me e in cui l’esperienza è tutto?

Bisogna immaginare i giocatori come eserciti di formiche industriose

Quando un editore pubblica un mog, il lavoro non finisce in quel momento come per un gioco offline: al contrario, è proprio lì che comincia. I mondi persistenti in cui si muovono i giocatori hanno bisogno di manutenzione continua. È importante anche che con il passare del tempo la gara mantenga elementi d’interesse anche per gli ultimi arrivati. Insomma, se le tante variabili del gioco escono dal loro ambito previsto, possono compromettere degli equilibri fondamentali e produrre alterazioni irreversibili. Succede anche agli ecosistemi, per esempio quando delle aree con vegetazione e fauna si desertificano. Rimangono delle forme di vita, ma sono poche e in contesti molto selettivi.

È un po’ quello che è capitato a The division, il mog di Ubisoft ambientato in una New York coperta di neve, dove un virus ha falcidiato la popolazione e fatto trionfare una legge del più forte che ricorda I guerrieri della notte. In questo contesto familiare (New York è ricostruita in modo magistrale) il gioco ha cominciato a crescere in popolarità, finché una variabile non è impazzita. Nell’ambiente di un mog bisogna immaginare i giocatori come eserciti di formiche industriose che fanno di tutto per piegare le regole dell’ecosistema al proprio desiderio di crescere e vincere; non c’è la riproduzione, effettivamente, ma le meccaniche sono le stesse di un qualsiasi altro biotopo.

Un sistema con molte variabili
Capita, ed è successo proprio in The division, che qualcosa sfugga al controllo dei creatori del mondo e alcuni utenti riescano a barare. Nel caso specifico, con uno stratagemma, alcuni giocatori riuscirono a migliorare caratteristiche proprie di alcune armi fino a diventare degli esseri fortissimi, semidivini, capaci di uccidere chiunque con un solo colpo di fucile da grande distanza. Raggiunti certi punti della piantina di New York, un giocatore normale non aveva modo di sopravvivere: si trovava davanti una genia di giocatori troppo diversi da lui, per cui si sentiva inferiore e smetteva di giocare.

Un ecosistema naturale è costituito da una rete di variabili interconnesse di una ricchezza imparagonabile a quella di qualsiasi videogioco: i videogiochi al confronto sono semplicissimi e minuscoli. Per esempio alcuni decenni fa il lago Vittoria è stato colpito duramente dall’inserimento nelle sue acque di alcuni pesci non autoctoni a scopo alimentare.

Questi grandi predatori, senza nessuno sopra di loro nella catena alimentare, hanno banchettato sui piccoli ciclidi colorati che abitano il lago, ribaltando drammaticamente un equilibrio che investe anche le popolazioni che abitano sulle sponde (su questo tema è spietatamente chiaro il documentario L’incubo di Darwin di Hubert Sauper). Dopo alcuni decenni però si sono registrati alcuni segni di ripresa e di lento riequilibrio per alcune specie ittiche.

L’estetica dell’universo di Destiny è ispirata ai romanzi di fantascienza degli anni settanta

I videogiochi e le loro comunità non hanno comprensibilmente questo tipo di “intelligenza”: sono sistemi semplici, piccoli e quindi molto fragili. Ovviamente The division non è sparito ma è mutato: ha tradito l’impostazione originale ed è diventato un club ristretto per appassionati invincibili. La differenza con il lago Vittoria e i suoi voraci persici del Nilo sta anche nel tempo: questi mondi virtuali non vivono abbastanza anni da permettere all’equilibrio di ristabilirsi. Poi arrivano altri titoli, la gente si stufa, frequenta altri posti.

Va detto che quando invece dei mondi persistenti rimangono vivi dopo che il ciclo della moda è passato, lo fanno in modo molto interessante. Second life, per esempio, che un tempo era su tutti i giornali e oggi è frequentato come spazio sociale da circa mezzo milione di persone, soprattutto sopra i quarant’anni. Oppure Final fantasy XI, che esiste da 15 anni e non viene “spento” perché ha una popolazione di alcune decine di migliaia di persone che pagano un abbonamento mensile e lo tengono in piedi con i loro soldi. Qualcosa a metà tra un condominio e una comune.

Ci sono anche mondi che, al contrario, vengono abbandonati talmente presto da non essere quasi nemmeno nati, come No man’s sky. Ambizioso a affascinante come pochi altri titoli, il gioco, seppur estesissimo, si è rivelato noioso e malinconico, ed è stato presto rifiutato dal pubblico.

In un paio di hangar nell’area dell’aeroporto di Los Angeles, qualche settimana fa, sono stati riuniti giornalisti e appassionati di videogiochi da tutto il mondo per assistere alla presentazione di Destiny2, il secondo capitolo di una delle saghe più importanti del mercato videoludico attuale. Prodotto da Activision con un budget di 550 milioni di dollari, Destiny è stato, al suo lancio nel 2014, il titolo più ambizioso in assoluto: una vita programmata di dieci anni, scandita attraverso tre capitoli principali e numerosi aggiornamenti.

Lo studio che lo ha sviluppato è Bungie, che prima aveva realizzato tutti i capitoli della celebre saga di Halo per conto di Microsoft. Al gioco bastò una settimana di vendite per rientrare dell’investimento iniziale. Nel giro di poche settimane molte persone che non avevano mai giocato a mog come World of warcraft o EVE online si ritrovarono dentro a Destiny, io tra questi.

Destiny2.

In Destiny siamo dei Guardiani, guerrieri chiamati a difendere la specie umana dagli attacchi di altre specie. L’umanità è stata visitata dal Viaggiatore, un’entità semidivina che ha la forma di una grande sfera bianca, e per secoli ha infuso i terrestri con una “luce” portatrice di energia e progresso, permettendo loro di espandersi e colonizzare altri corpi celesti del sistema solare. La storia del primo gioco si svolgeva in una fase successiva a questa età dell’oro, in cui l’umanità in crisi combatteva per salvarsi dall’oblio assoluto, mentre altre specie avevano conquistato quasi tutto quello che un tempo era stato umano.

Destiny2 parte da un punto ancora più basso, da una sconfitta totale: la base sulla Terra viene distrutta da un attacco nemico, l’energia del Viaggiatore rubata, i guerrieri costretti a darsi alla macchia. Questo capitolo dedicato non più alla battaglia campale ma alla resistenza, uscirà il prossimo 8 settembre, che per l’Italia è una coincidenza curiosa.

L’estetica dell’universo di Destiny è ispirata all’immaginario delle copertine dei romanzi di fantascienza degli anni settanta, gli stessi paesaggi desolati e splendidi di qualsiasi edizione di Dune di Frank Herbert o simili (in Italia parliamo soprattutto di Urania e Nord). L’ambientazione dei mog è fondamentale perché, a differenza di qualsiasi gioco offline, questi mondi esistono a prescindere che noi stiamo giocando o meno.

Quando siamo a fare la spesa, quando dormiamo, quando siamo al lavoro, c’è sempre qualcuno su Destiny che sta cercando di salvare l’umanità, c’è chi su World of Warcraft sta completando una quest, ci sono esploratori intergalattici su EVE online che si stanno organizzando per partecipare a una battaglia tra bande che dura da anni. Più che giochi che si accendono o spengono, questi sono luoghi dove si passa il tempo, in cui ci si deve sentire a casa, anche al di là di quello che si fa.

Ci sono meccaniche di gioco che spingono gli utenti ad agire insieme contro un nemico comune

Nell’anno e mezzo in cui ho frequentato Destiny insieme a un gruppo di amici (alcuni dei quali mai visti di persona), ho sempre avuto la sensazione di essere tra gli scarsi, ma non mi sono mai sentito fuori posto. Non c’era il senso del gioco tradizionale, ma nemmeno quello del torneo competitivo. Anche perché a differenza di tanti giochi simili, Destiny è stato praticamente il primo a rendere la condivisione dello spazio automatica e trasparente.

Destiny è la via di mezzo tra un gioco offline e uno collettivo, ragione per cui l’ingresso di altri utenti nella nostra partita (e viceversa) avviene senza che noi facciamo niente. Stiamo giocando e accanto a noi vediamo altri utenti. Non possono ucciderci, a meno che non siamo nell’area dedicata alle sfide tra giocatori, e possiamo proseguire per la nostra strada ignorandoli. Ma spesso finiremo per collaborare, perché è la cosa più sensata visto il contesto. In realtà questa strada è stata sperimentata dal piccolo gioco più influente degli ultimi anni, Journey, dove si condivideva parte dell’esperienza con giocatori sconosciuti, come escursionisti di montagna che passeggiano insieme ma non parlano la stessa lingua.

L’obiettivo in Destiny è stato da subito di lungo periodo, più basato sulla fluidità che sull’esplosività. Per questo azioni e combattimenti hanno una morbidezza ancora imbattuta. Ma non è strettamente tecnica la forza di questo gioco. C’è una scrittura che alterna lo slancio epico tipico del fantasy a momenti di commedia sofisticata che lo rendono più credibile e quotidiano. Ci sono meccaniche di gioco che spingono gli utenti ad agire insieme contro un nemico comune, e solo marginalmente l’uno contro l’altro. C’è un’eleganza nel disegno dei personaggi, delle armi e della grafica del gioco che preferisce suscitare ammirazione che fare effetto. C’è la storia che, nonostante un pubblico soprattutto maschile, non è così piena di testosterone: si combatte insieme per sopravvivere e difendere quel poco che resta, non solo per primeggiare e vincere trofei.

Destiny2.

Incontro Steve Cotton, responsabile dei mondi di Destiny2: la persona che sta a metà tra il progetto del gioco e la direzione artistica, ed è a capo della squadra che colloca le varie attività negli ambienti.

“Quando abbiamo iniziato a costruire i mondi per Destiny2 volevamo che fossero posti dove volevi stare: esserci, esplorare, fare cose e non andare mai via”, mi dice. In Destiny2 c’è molta più Terra di prima, e c’è anche un nuovo spazio comune che ha l’aspetto di una fattoria. “Il tono del gioco è: non hai più una casa, una città. E dove vai? Devi andare da qualche parte e ricostruire. La fattoria, ha a che fare con la resistenza, il ripartire da zero per riprenderti quello che ti serve. Perché hai perso tutto e devi trovare altra gente che ti aiuti a sconfiggere chi te lo ha tolto.”

Destiny2 si svolge sulla Terra, sull’oceano di metano di Titano (luna di Saturno), su Io (luna di Giove) e sul planetoide Nessus. Il nemico Ghaul è a capo del popolo dei Cabal, ed è convinto che il Viaggiatore abbia sbagliato, che il popolo eletto debba essere il suo e non quello degli umani. Ma non è un mostro. “No: è un cattivo complicato”, dice Cotton. “Vuole meritarsi la scelta del Viaggiatore. Ha una posizione discutibile ma molto sensata dal suo punto di vista.”

È evidente che l’equilibrio che si respira frequentando Destiny sia un risultato ottenuto con grande meticolosità e forse un po’ di fortuna. Pur essendo un gioco di guerra, è pieno di aspetti legati alla solidarietà, alla collaborazione, al rispetto reciproco. È un modo per spingere gli utenti a vivere l’ambiente del gioco come uno spazio civile, di regole condivise. Prepotenti e troll, figure tipiche di altri luoghi sociali della rete, qui si eliminano da soli, non hanno futuro: per ottenere risultati è necessario saper giocare in gruppo, riconoscere le regole della convivenza ed essere civili.

Questo nuovo capitolo aggiunge storie e ambienti, armi e modalità, ma senza rinnegare nessuna parte del primo gioco. Soprattutto, Destiny2 fa ripartire da capo lo stesso universo. Tutti i progressi del passato spariscono insieme alle gerarchie, e si ricomincia tutti da zero: una strategia che permette di tutelarsi dai rischi di desertificazione, scongiura la frustrazione delle nuovi arrivati, assicura quella dose di novità che rinfresca l’interesse e rinnova l’uguaglianza tra i giocatori. Chi è scarso come me rimarrà indietro nel corso di qualche settimana, ma va bene così.

È solo da alcuni anni che questo tipo di gioco si sta diffondendo presso il grande pubblico, anche se il genere esiste in qualche forma da quando esiste la rete, ed è figlio dei giochi di ruolo come Dungeons & Dragons. Ora che il pubblico di questi giochi si allarga e sempre più generi vengono declinati in forma di mog, è chiaro che le fondamenta di questi titoli non sono le stesse dei giochi individuali o di competizione sportiva online.

Steve Cotton me lo conferma quando parla del cuore del gioco: “Quando abbiamo cominciato a lavorarci era un’idea: se fai uno sparatutto bello, divertente e ben fatto e ci metti anche altra gente sarà ancora più bello. Era solo un’idea, non lo sapevamo per certo. Pensavamo che avrebbe funzionato perché le cose fatte in compagnia in genere sono più divertenti. Ma questo non voleva dire necessariamente che inserire degli sconosciuti nelle partite fosse una buona idea. Ha funzionato meglio di quello che pensassi. Perché io faccio le mie cose e vedo persone intorno a me che fanno le loro. E la cosa non mi disturba. Anzi, rende il mondo più vero e vibrante proprio perché ci sono altri che fanno altro”.

Con un misto di epica e quotidiano, fratellanza e competizione, Destiny2 si ripropone come uno dei grandi giochi online più interessanti di questa generazione. A differenza del primo capitolo, non è solo per console ma anche per pc. È sicuramente una tappa importante di un percorso complicato che sta trasformando sempre più videogiochi in luoghi sociali. Sono contesti di relazione per i quali funzionano regole più legate all’empatia e alla familiarità che alla competizione.

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