In tutti i sondaggi salgono le preferenze per i grillini e - di pari passo - sale il panico tra i partiti. Sembra di assistere alla calata degli unni della politica, anzi: dell’antipolitica. E Beppe Grillo si presta al gioco: sottolinea ossessivamente l’alterità del Movimento 5 stelle, attacca i partiti definendoli decrepiti e moribondi, spara provocazioni di dubbio gusto, come quella sulla mafia, che lui valuta un male minore rispetto al governo.
Per molti versi sembra di venire catapultati indietro di vent’anni, ai tempi di Tangentopoli e della prima grande ondata antipartitica dell’Italia repubblicana. I paralleli tra oggi e allora sono tanti: una grave crisi economica, misure drastiche del governo – a suo tempo, per esempio, l’introduzione dell’Ici, oggi rinata come Imu – che impoveriscono i cittadini, partiti che fanno notizia soprattutto per i casi di corruzione e – dall’altro lato - forze che cercano di conquistarsi la scena strillando contro il “costo eccessivo della politica”, contro “i politici corrotti” che si sarebbero asserragliati nel loro fortino, incuranti dei problemi della “gente comune”.
Da un lato la politica, il palazzo, la partitocrazia, dall’altro i cittadini, la cosiddetta società civile: anche questa contrapposizione si ripete e denota una particolarità tutta italiana. In altri paesi il malcontento s’indirizza verso chi ha governato, per poi trovare una via d’uscita nelle elezioni e la vittoria dell’opposizione. In Italia, invece, sia la prima repubblica sia ora la seconda sono finite per implosione: non sono stati gli elettori a optare per un’alternativa, ma è stato il vecchio potere ad abdicare senza che ci fosse un’alternativa pronta, in grado di mobilitare una maggioranza.
Il fenomeno era già visibile, per chi lo voleva vedere, negli ultimi mesi del governo Berlusconi: la sfiducia verso di lui e il suo governo cresceva, ma non abbiamo assistito a una parallela crescita di fiducia verso l’opposizione: anzi, la sfiducia è aumentata anche nei suoi confronti.
E oggi i partiti reagiscono esattamente come vent’anni fa, talvolta imbarazzati, talvolta stizziti. Imbarazzati quando viene proposto il dimezzamento del finanziamento pubblico ai partiti, stizziti quando danno del qualunquista a Grillo e al suo movimento. E poi aggiungono uno scatto d’orgoglio, soprattutto dalle fila del Pd, sottolineando che la politica è un mestiere complesso da non lasciare a dilettanti improvvisati.
Non ci sarebbe nulla da obiettare contro questa difesa d’ufficio dei “politici di professione”, contro questa messa in guardia di fronte a una sterile contrapposizione tra il mondo della politica sporca e una fantomatica società civile vergine e pulita. Ma il fatto è che in Italia sia i partiti di destra sia il Pd, chi più chi meno, hanno contribuito ad alimentare questa contrapposizione, ammiccando al presunto serbatoio della società civile.
È un ragionamento ovvio parlando del Pdl, partito ad personam, con un leader che si è auto inventato, che a suo tempo si è proclamato fiero di essere arrivato “dalla trincea del lavoro” per cacciare “i politicanti”. Il Pdl ha prima arruolato ex socialisti e democristiani rimasti disoccupati dopo l’implosione dei loro partiti, da Scajola a Cicchitto a Brunetta, e poi si è vantato di aver portato, finalmente, tanti esponenti del “mondo produttivo” in parlamento, aizzando i sentimenti di antipolitica tra i suoi elettori. Inutile dirlo anche della Lega, che ha fatto dell’attacco a Roma ladrona in nome dei ceti produttivi del Nord la sua ragion d’essere e ha portato il linguaggio rozzo, i ragionamenti beceri di tanta società civile nelle piazze e nelle aule del parlamento.
Ma colpisce il fatto che anche il Pd non sia stato affatto immune da simili stratagemmi. Già con la candidatura di Romano Prodi, nel 1996, la coalizione di centro-sinistra, incapace di presentare un leader vincente, proveniente dalle fila dei suoi “politici di professione”, dovette ripiegare su un esponente prestato alla politica.
E furono sempre i Ds, nel lontano 1997, a portare Antonio Di Pietro in politica, candidandolo al senato. Poi ci fu un dibattito tanto acceso quanto bizzarro, nei primi anni 2000, su un altro protagonista ritenuto papabile come candidato premier del centro-sinistra: Antonio Fazio. Uomo vicino all’Opus dei, presidente della Banca d’Italia, dovette rassegnare le dimissioni per aver prestato sostegno a dubbi banchieri e palazzinari.
E poi va ricordata anche l’operazione di Walter Veltroni in occasione delle elezioni del 2008: quando nominò capolista del Pd per il Nordest un imprenditore non sospetto di simpatie di sinistra, ma espressione dei “veneti operosi”, Massimo Calearo. Calearo ripagò cambiando casacca e arruolandosi tra i sostenitori di Berlusconi, dichiarando poi di volersi tenere il seggio perché doveva pagare il mutuo.
Infine ci sarebbe l’Idv, che ha avuto la trovata d’ingegno di candidare Antonio Razzi e Domenico Scilipoti, anche loro autentica espressione di certa società civile. Forse, oggi come mai, il parlamento italiano, zeppo di deputati e senatori ignoranti, tecnicamente impreparati, dal linguaggio approssimativo e sgrammaticato è diventato un fedele specchio del paese, anche se - essendone specchio - può vantare anche deputati e senatori competenti e preparati. Ma forse sarebbe il caso di farla finita con il rincorrere la società civile e di fare davvero bene il lavoro politico.
L’avanzata dei grillini non si ferma con i proclami. Ci vogliono i fatti. Ci vogliono partiti in grado di selezionare le persone più capaci, partiti poi in grado di ascoltare i loro elettori. È invece perfettamente inutile dare dell’antipolitico al movimento grillino. I massimi rappresentanti dell’antipolitica sono Berlusconi, Bossi, Razzi o Calearo.
I seguaci di Grillo sono quasi dei cittadini-modello, non dei qualunquisti che guardano solo il proprio particolare: sono persone istruite che s’informano, che si interessano alla cosa pubblica e sono disposti a impegnarsi, che vogliono partecipare ed essere ascoltati. I partiti, almeno quelli del centro-sinistra, farebbero bene a prenderli sul serio.
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