10 maggio 2013 12:10

Non potrebbe essere più assurda la situazione del Partito democratico (Pd). Il partito, o la sua coalizione, esprime le quattro più alte cariche dello stato ed è di gran lunga, con più di 400 deputati e senatori, la più forte componente in parlamento. Ma a quanto pare è ben deciso a eseguire un suicidio programmato.

C’era negli anni scorsi chi predicava il partito liquido, ora assistiamo invece alla liquefazione del Pd. Di un partito che nei suoi vari stadi di evoluzione (a sinistra: Pci, Pds, Ds; al centro: Dc, Ppi, Margherita) pretendeva di trasformare sconfitte in futuri successi, ma che in realtà si è accanito negli anni a trasformare successi (reali o potenziali) in sicure sconfitte. Un partito che è riuscito a tenersi tutti i difetti dei suoi predecessori storici – del Pci e della Dc – senza averne più i pregi. Un partito i cui leader riservano l’odio più autentico e sincero agli altri capi corrente invece che all’avversario politico. Un partito, insomma, in cui circolano talmente tanti veleni da rendere sicura la riuscita del suicidio.

Ha voluto superare le vecchie identità senza crearne delle nuove, senza delineare un progetto, un programma, un’idea comune sul partito, un collante identitario: è questo il peccato originale del centrosinistra negli ultimi vent’anni e passa.

Tutto è cominciato con lo scioglimento del Pci e la fondazione del Pds, tra il 1989 e il 1991. Achille Occhetto aveva dalla sua la convinzione che, dopo il crollo del muro di Berlino, da comunisti non si sarebbe andati da nessuna parte. Ma l’ex Pci rifiutò sdegnosamente di dichiararsi un partito socialdemocratico. Secondo i suoi politici anche la socialdemocrazia era superata: con la spocchia abituale, per niente scalfita dalla sconfitta storica, dichiararono che anche la socialdemocrazia era parte del novecento, quindi del passato, e si davano, senza nessuna logica, alla lettura di autori liberaldemocratici (del novecento!) come sir Karl Popper e sir Ralf Dahrendorf. Comincia qui un processo mai terminato: un brancolare nel buio in cerca di un’identità.

Allo stesso tempo, però, Occhetto & co. dichiararono di voler inaugurare “la Cosa”, il partito nuovo. Vi erano ammesse personalità indipendenti (in quella fase Stefano Rodotà divenne addirittura presidente del Pds), ma l’apertura finisce ben presto. Quelli appena ammessi vengono dolcemente respinti dall’apparato che è sempre lo stesso: quello del Pci. La sbandierata apertura altro non era che una malriuscita operazione algebrica sulla scia di Totò (“È la somma che fa il totale”), il tentativo di diventare più grandi senza però cambiare apparato.

Anche questa logica di sommare forze senza trasformarsi avrebbe poi accompagnato lo sviluppo stagnante del centrosinistra fino alla nascita del Pd: la “Cosa 2” di D’Alema nel 1998, che si riduce al cambio del nome (da Pds a Ds), la creazione della Margherita, la “fusione fredda” di Ds e Margherita nel Pd. E ogni volta dobbiamo ascoltare la manfrina dell’apertura alla società civile, alle forze fresche, all’associazionismo e chi più ne ha più ne metta. Ma ogni volta le vecchie volpi della politica, provenienti dal Pci o dalla Dc, preferiscono rimanere tra di loro senza essere scocciati da dilettanti improvvisati.

Infatti rimangono tra di loro, ma non sono neanche capaci di dare una risposta comune sul tipo di partito che vogliono, sui processi decisionali, sul grado di coinvolgimento della base. Il can can – che continua ancora oggi – comincia nel lontano 1994. Quando Occhetto rassegna le dimissioni, il Pds decide che dev’essere “il corpo” del partito, qualche migliaio di attivisti sul territorio, a scegliere chi deve guidare il partito tra D’Alema e Veltroni. Il cosiddetto “popolo dei fax” vota a maggioranza per Veltroni. E il partito, infischiandosene, incorona D’Alema.

Comincia in quel momento la correntizzazione del Pds, la spaccatura tra fazioni con visioni radicalmente diverse sul futuro del partito, la cristallizzazione in campi ostili. Chi vuole andare avanti nel Pds/Ds non solo deve iscriversi al partito, ma deve fare subito una scelta di campo tra le correnti: un modo come un altro per tenere il partito radicalmente chiuso a “energie fresche”.

E tutto succede senza che ci sia più il vecchio collante del glorioso Pci, dove i conflitti erano mitigati da una comune disciplina e da un forte sentimento di appartenenza a una causa, una missione.

Di quei tempi moltissimi esponenti del Pds/Ds/Pd mantengono solo un elemento: l’approccio pedagogico, dall’alto in basso, e quindi spesso spocchioso, verso tutto quello che si muove fuori dal partito. I girotondi, la Cgil di Cofferati, i movimenti referendari del 2011, il popolo viola: i commenti sprezzanti, infastiditi, irritati si sprecano. “Radical-chic”, “opposizione elitaria che non parla alle masse popolari”, “antiberlusconismo sterile”, “piazze piene, urne vuote”, insomma: fate schifo, lasciate fare al partito. Anzi al Partito con la P maiuscola come ai tempi di Togliatti e Berlinguer, al Partito che sa fare Politica (anche quella con la P maiuscola) invece di organizzare “proteste fine a se stesse”.

Ma cosa sa fare questo partito? L’ultimo programma elettorale era un’imbarazzante collezione di luoghi comuni senza neanche un’enunciazione precisa, la campagna elettorale era, se possibile, ancora più imbarazzante. Ma il colmo viene raggiunto dopo le elezioni: il Pd si presenta profondamente spaccato, come non partito in cui sono saltate tutte le regole, un “autobus, ascensore, nido di cuculo” come ha detto Bersani nel suo discorso di commiato. E non illudiamoci: non è un problema solo dei leader nazionali. Anche in moltissime città si è arrivati a una spietata guerra per bande. A Roma, per esempio, il partito avrebbe buone possibilità di vincere il Campidoglio con Ignazio Marino. Peccato che buona parte del Pd lo detesti e faccia il tifo per Alfio Marchini.

È ovvio che un partito del genere non riesca più a esprimere un segretario condiviso. Nel vuoto di idee, di programmi, di progetti (sfido i lettori a dire in cosa si differenzino i dalemiani, i bersaniani, i “giovani turchi” eccetera riguardo alla politica economica o sociale) l’unica questione è: a quale tribù appartiene il futuro leader. In breve: non esiste più l’appartenenza al Pd, ma solo quella a una fazione. Se il conducente viene eletto da un congresso o da primarie pensate come guerra civile conta zero: un “autobus” così è arrivato al capolinea.

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