23 marzo 2015 12:39

E così, alla fine Maurizio Lupi se n’è andato, anche se ha dato l’impressione di non esserne troppo convinto. A sentire il suo discorso alla camera dei deputati, infatti, non c’era nessuna ragione per il passo indietro. Lupi ribadiva di non essere indagato, di non aver mai chiesto nulla per il figlio, e che il suo unico errore era stato non aver chiesto a Lupi Jr di restituire quel Rolex (il cui valore “non era diecimila ma 3.500 euro”, specificava).

Si potrebbe dire che Lupi abbia sanato un’anomalia italiana: in altri paesi non è necessario essere indagati per essere costretti a rassegnare le dimissioni, basta un comportamento dubbio a livello etico-morale. Ma resta un’altra anomalia: quella delle politiche infrastrutturali dell’Italia. In questo senso, lo stanco dibattito alla camera è stata un’occasione persa. Non si è parlato granché di questo tema cruciale.

Quel dibattito ha avuto luogo altrove: a Conversano, una cittadina di trentamila abitanti a sud di Bari. Lì la fondazione Giuseppe Di Vagno ogni primavera organizza la Scuola di buona politica, un ciclo di lezioni rivolto a 50 ragazzi, per la maggior parte studenti universitari e liceali. Venerdì scorso la conferenza era dedicata proprio alle infrastrutture. Come relatore era stato invitato Paolo Sellari, docente di geografia politica ed economica all’Università La Sapienza di Roma.

Sellari ha fornito un’analisi impietosa. L’Italia investe nelle infrastrutture senza seguire alcuna logica di sistema, senza porsi domande sulle priorità, senza affrontare il nodo del rapporto costi-benefici. Prevale sempre la logica della grande opera, sia essa la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, l’aeroporto Milano-Malpensa, il ponte sullo stretto di Messina o l’autostrada Brescia-Bergamo-Milano (BreBeMi). In questo modo si buttano miliardi e miliardi di euro (Sellari ha calcolato che il costo finale della Torino-Lione potrebbe superare i 30 miliardi) senza benefici comparabili.

Così il paese si ritrova con un aeroporto come Malpensa, che secondo i suoi progettisti e i politici fautori dell’opera doveva infallibilmente diventare un megasnodo per l’Italia e non solo. Invece questa struttura costata miliardi languisce ben lontano dai fasti promessi. Non va molto meglio alla BreBeMi, inaugurata l’anno scorso e quasi deserta a qualsiasi ora del giorno.

L’Italia sta perdendo tutti i treni anche nel sistema portuale. Gioia Tauro, per esempio, doveva avere uno splendido futuro, ma sta rimandendo indietro rispetto ai concorrenti mediterranei, per il semplice motivo che altrove un container riparte entro due giorni, mentre nel porto calabrese ce ne vogliono cinque. C’è un’altra ragione che rende Gioia Tauro poco attraente: è un porto collegato malissimo, non è allacciato alla rete ferroviaria e i camion devono immettersi nella famigerata autostrada Salerno-Reggio Calabria.

Gli studenti di Conversano si sono chiesti a quale logica obbedisca questa politica insensata. Secondo Sellari ci troviamo davanti a una degenerazione del keynesismo: conta l’opera in sé, basta spendere tanto per creare guadagni, profitti, redditi e stimolare in questo modo l’economia. Questo modello ha una solidissima base in un pervasivo sistema di corruzione: l’utilità economica e sociale di un’opera è del tutto secondaria per chi ci vuole lucrare sopra.

Secondo Sellari le prime vittime di queste scelte errate sono le grandi città italiane, che hanno infrastrutture decisamente inferiori agli standard europei: per esempio, l’Italia ha il peggior sistema di metropolitane tra i paesi del continente.

Alla fine, i partecipanti alla Scuola di buona politica hanno chiesto come si può reagire a questa cattiva politica. Pochi mesi fa il governo Renzi ha varato il decreto Sblocca Italia, pensato per rimettere in moto gli investimenti nelle infrastrutture. Ma il vero Sblocca Italia non c’è ancora: una decisa virata nella lotta alla corruzione.

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