08 maggio 2018 17:11

Ce l’hanno fatta. Ce l’hanno fatta a dimostrare quello che si temeva fin dal 4 marzo: di essere incapaci di dare vita a un governo dotato di una maggioranza parlamentare. Ce l’hanno fatta in una messa in scena corale in cui tutti i protagonisti in campo – il Movimento 5 stelle, il centrodestra, il Partito democratico – si sono sforzati al massimo per dimostrare la volontà di ignorare alcuni fondamentali della democrazia parlamentare.

Basta guardare i proclami dei vari protagonisti che abbiamo sentito per due mesi. Gli italiani hanno espresso un voto dirompente, catapultando i cinquestelle al 32,7 per cento, la Lega di Matteo Salvini al 17,4 per cento e con lui il centrodestra al 37 per cento, facendo precipitare il Pd di Matteo Renzi al 18,7 per cento. Certo, c’erano i vincitori (Salvini e Luigi Di Maio), ma non c’era la vittoria, almeno non quella che permetteva, all’uno o all’altro, di formare un governo con le proprie forze.

C’era invece una situazione di stallo, con tre blocchi in parlamento privi di una maggioranza propria. Ma sia Di Maio sia Salvini si atteggiavano a veri vincitori, affermando incautamente di aver ricevuto “dagli elettori” il mandato a guidare il futuro governo, di avere “la maggioranza” dalla loro parte: l’uno contando i risultati dei singoli partiti, l’altro facendo pesare il voto nella sua alleanza politica, quella del centrodestra. Tutti e due sorvolavano sul fatto che si trattava di maggioranze non assolute ma relative. Invece in una democrazia parlamentare, tanto più se basata su una legge elettorale sostanzialmente proporzionale, si dà il caso che per varare il governo ci vuole proprio quella: la maggioranza assoluta di deputati e senatori disposti a esprimere la fiducia all’esecutivo.

Nelle democrazie parlamentari non esiste una legge divina che riserva alla forza più forte il diritto inalienabile di guidare il governo

Un seminario propedeutico di scienze politiche, del tipo del primo anno d’università, avrebbe potuto illuminare i vari leader in merito: se in parlamento sono rappresentati tre blocchi politici ci vogliono due di loro per arrivare alla maggioranza di governo. Non conta quali dei due si coalizzino. È assurda l’affermazione dei cinquestelle secondo cui la formazione di un governo senza di loro (in quanto prima formazione politica) sarebbe un mezzo colpo di stato. È altrettanto assurda l’affermazione di Salvini che tenere fuori il centrodestra (in quanto alleanza più forte) sarebbe un attacco alla democrazia.

Non è così. Nelle democrazie parlamentari non esiste una legge divina che riserva allo schieramento più forte (ma quale: il partito? L’alleanza?) il diritto inalienabile di guidare il governo. Per fare un esempio concreto: in Germania c’è stata al governo per anni, dal 1969 al 1982, una coalizione tra socialdemocratici e liberali anche se in tutte le contese elettorali (con l’eccezione del 1972) l’Unione cristianodemocratica (Cdu) era sempre stato il partito di maggioranza relativa. Eppure la Cdu non ha mai gridato al golpe.

Ma non fa più bella figura neanche il Pd. Mentre gli altri, M5s e centrodestra, hanno reclamato come diritto divino quello di governare, il Pd ha sorpreso tutti reclamando il diritto altrettanto incontrovertibile di stare all’opposizione, affermando che “così hanno deciso gli elettori”. Eppure almeno quelli che hanno votato Pd, immaginiamo, sono di tutt’altra idea: hanno espresso quel voto per mandare il partito proprio lì, al governo. Se poi ci sono le condizioni lo si valuta nelle trattative. Ma proprio quelle trattative sono state rifiutate dal Pd fin dal principio.

Sta qui, di nuovo, la differenza con la Germania. Qui, dopo le elezioni del settembre 2017, abbiamo assistito a ben due trattative. Prima quella tra i cristianodemocratici di Angela Merkel, i Verdi e i liberali. Era una trattativa tutta concentrata sul programma di governo ed è naufragata perché i liberali si sono convinti di non poter trovare la necessaria convergenza programmatica in alcuni campi cruciali (politica europea, gestione della crisi dei profughi) con gli altri partner. Poi è subentrata la trattativa tra la Cdu e i socialdemocratici, di nuovo partita sulle convergenze programmatiche possibili. E ha portato a un patto, ratificato da un partecipatissimo voto degli iscritti alla Spd.

In Italia invece tutto si è ridotto a una pedalata di Matteo Renzi in bici per le vie di Firenze, durante la quale, afferma lui, ha tastato il polso della base del Pd, facendosi dare la risposta gradita, quella che con l’M5s non bisogna neppure parlare. Sta tutta lì la miseria della crisi di governo italiana: in due mesi non si è neanche cominciato un confronto sulle traiettorie che la politica italiana, in campo economico, sociale, europeo, di sicurezza, dovrebbe prendere nei prossimi anni.

Invece abbiamo assistito a una partita di scacchi, alquanto noiosa, adatta a confermare i peggiori pregiudizi dei cittadini sul “palazzo”, palazzo ai cui riti si stanno conformando anche le forze anti establishment. Va dato atto che qualche mossa i cinquestelle l’hanno fatta, sacrificando vecchi integralismi come il no a qualsiasi patto con altre forze politiche. Ma non hanno fatto abbastanza per sorprendere davvero. Anzi una piccola sorpresa ce l’hanno riservata. Quella della politica “dei due forni”. Di andreottiana memoria.

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