08 maggio 2008 18:08

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Attraversare l’Atlantico o restare a casa per guardare la tv in fondo è la stessa cosa, no? Alla fine puoi solo raccontarlo agli amici, scrive Nick Hornby

Il mese scorso non riuscivo a leggere. Anzi, per essere precisi non riuscivo a leggere i libri fino alla fine. Ho cominciato

La casa gialla di Martin Gayford, sulle nove settimane che Gauguin e Van Gogh hanno vissuto insieme da coinquilini, Il gene agile di Matt Ridley, Barnaby Rudge di Dickens, La posizione di Meg Wolitzer, Child of all nations di Irmgard Keun e Gomorra di Roberto Saviano.

E niente mi ha preso davvero. Non è certo colpa di questi bravissimi autori e del loro ottimo lavoro. Ho cominciato a pensare che forse avevo perso l’abitudine di leggere o magari non ne ero più capace. Sentivo che questa lunga e penosa spiegazione sarebbe stata l’ultima cosa che avrei scritto nella mia rubrica prima di cederla a qualcuno abbastanza giovane da tuffarsi in un libro e arrivare fino alla fine (o almeno a metà).

Ma poi ho pensato: non è proprio questo uno dei problemi dei giovani d’oggi? Il loro cervello è talmente avariato da Nintendo e siti porno che sono fisiologicamente incapaci di leggere una cosa più lunga delle scritte su una scatola di corn flakes. Insomma, potrei essere insostituibile. Ma sì, se sarò in grado di leggere qualche incipit di libro ogni mese questa rubrica sarà mia per sempre.

Tanto per cominciare ho molti argomenti di conversazione. Lo sapevate che se cercassimo di trascrivere interamente il genoma umano, una lettera al millimetro, verrebbe fuori un testo lungo come il Danubio? E lo sapevate che nel 1876 l’artista vivente più quotato era Ernest Meissonier e che uno dei suoi dipinti fu venduto per quasi quattrocentomila franchi?

Sono solo due delle tante cose che ho imparato leggendo gli incipit nell’ultimo mese. Comincio a pensare che questo nuovo regime di lettura mi aiuterà moltissimo in vecchiaia. Potrei leggere qualche incipit, sedermi al bar e snocciolare alla gente preziose perle di saggezza. Con la storia del genoma mi farei sicuramente un sacco di amici.

Insomma ero quasi disperato, perché diciamocelo: un uomo stufo di leggere guarda un sacco di repliche dell’A­genzia Rockford. Ma poi è successo che un volume in bella vista in una libreria del mio quartiere mi ha trasmesso un insano desiderio di leggerlo dall’inizio alla fine: l’ho comprato e l’ho divorato.

La ragione per cui Spike & Co di Graham McCann mi ha attirato in modo così irresistibile rimane un mistero. È un libro sulla scrittura umoristica britannica degli anni cinquanta. Prima di comprarlo non sapevo neanche che esistesse. E anche se vado pazzo per un paio degli scrittori di cui parla McCann, non pensavo a loro da anni.

Spike & Co parla di un gruppo di autori che formarono una cooperativa chiamata Associated London Scripts. In realtà volevano chiamarsi Associated British Scripts, ma al momento della registrazione gli fecero notare che non erano così tanti.

Lavoravano in un ufficio sopra a un fruttivendolo di Shepherd’s Bush e, da lì, finirono per cambiare la storia della radio e della tv in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Da quegli uffici uscì l’idea per The goons, che era il programma radiofonico preferito di John Lennon e avrebbe ispirato i Monty Python.

Sempre da lì uscirono Steptoe & son (che negli Stati Uniti diventò Sanford & son), Till death us do part, che dalle vostre parti è conosciuto come Arcibaldo, e la serie di fantascienza Dr Who, che prosegue ancora oggi sempre più sfavillante. Ho amato queste trasmissioni, ma non sapevo nulla della storia – semplicemente straordinaria – del fruttivendolo.

Ho scoperto anche che due dei miei scrittori preferiti, Ray Galton e Alan Simpson, si sono conosciuti in un sanatorio per tubercolotici. Erano due adolescenti molto malati, convinti di dover morire prima dei trent’anni. Si sono conosciuti verso la fine della loro degenza, negli anni quaranta, e a metà degli anni sessanta avevano già prodotto Hancocks half hour e Steptoe & son due serie che hanno contribuito a forgiare la psiche britannica.

Il capitolo su Spike Milligan regala un ottimo consiglio di scrittura: “Quando lavorava su una sceneggiatura odiava doversi fermare, perciò buttava giù tutto quello che gli passava per la testa. E se una battuta non gli veniva, scriveva ‘vaffanculo’ o ‘cazzate’ e andava avanti. La prima stesura era piena di parolacce, che poi diminuivano a ogni nuova versione. Verso la decima stesura aveva una sceneggiatura senza imprecazioni”.

Ho trovato questo dettaglio più illuminante di quanto sia pronto ad approfondire: forse perché riesco a essere inadeguato direttamente nella pagina, senza temporeggiare sui margini.

Certo non posso sperare che questo libro vi piaccia quanto è piaciuto a me. Per lo più vi sembrerà incomprensibile e d’altra parte voi non siete me. Nel suo libro What good are the arts?, John Carey nota che nel corso di una vita milioni di piccole decisioni e di influssi contribuiscono a modellare il nostro rapporto con i libri, la musica e tutto il resto.

Se ne trovassimo anche solo sei in comune tra di noi, sarebbe già una sorpresa. Magari avete comprato lo stesso libro, nello stesso momento e nello stesso negozio. Ma sicuramente un’ora prima non eravate sul lettino del mio psicanalista. Me ne sarei accorto senz’altro, perché in quel caso mi sarei dovuto sdraiare su di voi.

Come conseguenza diretta di *Spike & Co *sono successe due cose: 1) ho comprato su internet una stampa commemorativa di Galton e Simpson autografata;

2) ho mandato un’email a un amico e gli ho proposto di scrivere una cosa a quattro mani, anche se nessuno di noi due soffre di tubercolosi o di qualche altra malattia infettiva mortale.

  • Spike & Co* è un inno alle gioie della collaborazione e improvvisamente il mio mestiere solitario mi ha fatto sentire insoddisfatto. Ovviamente non cambierà niente, ma l’idea ci è piaciuta e ci stiamo divertendo. E non succede spesso passando una giornata davanti al computer.

**Ho letto ***The shadow catcher* di Marianne Wiggins e La breve favolosa vita di Oscar Wao di Junot Díaz perché dovevo. Ho accettato di fare da giuria per il concorso letterario del Morning News, in cui le migliori novità letterarie si sfidano in una sorta di torneo.

Per ora non c’è ancora un vincitore, ma posso già dirvi che Díaz, nel mio girone, ha dato uno spintone decisamente poco sportivo a Marianne Wiggins. Ha vent’anni meno di lei e a giudicare dalla foto sulla sopraccoperta è parecchio più robusto, eppure non si è fatto scrupoli. Mi auguro almeno che si vergogni. Il suo libro, comunque, è bellissimo.

Per vostra fortuna avevo letto un paio di libri prima del mio periodo di astinenza, perciò è ancora presto per andarvene. The happiest man in the world di Alec Wilkinson è uno studio su Poppa Neutrino, una specie di vagabondo zen che ha passato la vita su una zattera nell’Atlantico inventando nuovi giochi con il pallone e roba del genere. Il titolo del libro ha avuto su di me l’effetto previsto: mi ha fatto venire voglia di scoprire il suo segreto.

Un giorno mi hanno mandato un manuale di auto-aiuto che si intitolava Should you leave?, uno di quei libri che ti ritrovi per mesi sempre in giro per casa. Gli ospiti lo guardavano, sorridevano, lo prendevano, lo rimettevano giù e alla fine lo sfogliavano un po’.

Nessuno chiedeva a che pagina era la risposta, ma si capiva che speravano di capitarci su senza far vedere che la stavano cercando. Tutti quelli che ho sorpreso a leggere The happiest man in the world hanno confessato una frustrazione simile.

Non sono sicuro che Poppa Neutrino sia in grado di fornirci le risposte che cerchiamo: “Aveva cominciato a sanguinare dal didietro quindi aveva sempre una striscia marrone sui pantaloni…”, “La scatola era lunga due metri, alta un metro e mezzo e larga un altro metro e mezzo… ne usciva solo quando era sicuro che non ci fosse nessuno in giro perché non voleva che si sapesse che lui ci viveva dentro”.

Non sono riuscito a identificarmi in Neutrino, perché nei suoi panni mi sarei sentito totalmente disperato. Così ho rapidamente abbandonato l’idea di cercare nel libro la strada per la mia felicità e ho cercato invece la fonte della sua. Ma anche quella mi è sembrata piuttosto difficile da trovare.

Poppa Neutrino passa talmente tanto tempo ad avere fame, a soffrire di infarti, a vivere in scatole sanguinando dal didietro che a un certo punto ti viene il dubbio che ci sia stato un equivoco: forse il testo che doveva avere quel titolo è finito per sbaglio dentro una copertina molto meno attraente.

Inoltre il libro nasconde un trucco. La ragione per cui molti di noi non possono vivere liberi da obblighi pressanti è perché abbiamo tutti mutui, figli, genitori, amici e così via. Probabilmente il mutuo su una scatola non è oneroso, ma sappiamo che Neutrino ha dei figli, di cui si parla qui e là.

A quel punto viene il sospetto che il modo più semplice di evitare gli obblighi pressanti è ignorarli del tutto. I lettori del New Yorker sanno che Alec Wilkinson è incapace di scrivere una cosa noiosa o sciatta e la sua evidente passione per quest’argomento dà al libro un’energia vincente. Ma è una passione davvero difficile da capire.

Eppure The happiest man in the world mi ha fatto pensare. Soprattutto alla natura e al valore delle esperienze e dei ricordi (ma non ho approfondito la questione più di tanto). Attraversare l’Atlantico su una zattera o restare a casa per guardare la tv in fondo è la stessa cosa, no? Alla fine tutto quello che ti resta dopo è parlarne agli amici. E se così stanno le cose, allora…

Scusatemi. Se leggete questa rubrica è perché siete in cerca di consigli di lettura, non certo per sentirvi dire che tutte le imprese umane sono senza senso.

Ma ecco finalmente un consiglio di lettura: Feed di Matthew Tobin Anderson. È un altro di quei libri da aggiungere alla lista (sempre più lunga) intitolata “Romanzi per ragazzi che non ho mai sentito nominare ma che alla fine sono dei classici moderni”.

Feed è una storia di fantascienza su un mondo in cui tutti sono collegati direttamente a un flusso infinito di sms, pubblicità, musica pop e trailer cinematografici. È una metafora più che una previsione: la conseguenza è che i personaggi di Anderson sono fastidiosamente malleabili e ottusi.

Perfino il presidente degli Stati Uniti ha problemi con le parole! Feed è divertente, serio, triste (al centro della trama c’è una storia d’amore sfortunata) ed è scritto in modo eccezionale.

Appena l’ho chiuso ho comprato anche l’ultimo romanzo di Anderson, che è completamente diverso: è ambientato nel 1775 e parla di un ragazzo cresciuto con un gruppo di filosofi razionalisti. Sembra proprio che l’autore si sia lasciato sedurre dalla sirena dei soldi facili. Non l’ho ancora cominciato. È un romanzo, quindi dubito che ci siano delle informazioni interessanti nelle prime pagine. Mi sa che mi sto trasformando in mio padre.

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