12 febbraio 2011 15:59

Libri letti

*• Il nostro comune amico, Charles Dickens

The uncoupling, Meg Wolitzer

Questo bacio vada al mondo intero, Colum McCann

Half a life, Darin Strauss*

Libri comprati

*• A Dickens dictionary, A.J. Philip

Half a life, Darin Strauss*

The Anthologist, Nicholson Baker

The million dollar mermaid, Esther Williams

Scrivere una rubrica mensile sulle mie letture ha molti, prevedibili vantaggi: fama, donne (è incredibile cosa sia disposta a fare la gente per avere qualche anticipazione sulla lista dei libri letti), notorietà internazionale eccetera. Ma forse il lato più positivo è quello emerso lentamente, nel corso degli anni: non puoi leggere libri lunghi.

Be’, almeno io non ce la faccio. In una settimana lavorativa leggo, a occhio e croce, tra le due e le trecento pagine e ho l’impressione – correggetemi se sbaglio, per favore – che se nella lista dei libri letti ce ne fosse uno solo sarebbe molto difficile convincervi a leggere una sua recensione di duemila parole. Di conseguenza, mi sento perfettamente giustificato a tralasciare certi tomi di ottocento pagine che mettono soggezione solo a guardarli.

Li ignoro per il vostro bene, anche se sarebbe ipocrita dire che mi dispiace. Al contrario, ci sono volte in cui, vedendo amici o compagni di viaggio arrancare sulle pagine del mostro letterario che va di moda in quel momento, vorrei darvi un bacio. Una volta ho dedicato un’intera rubrica a *David Copperfield

  • – me lo ricordo – e ultimamente ho letto tutto d’un fiato il bellissimo ma rubensiano Austerity Britain di David Kynaston. Di solito, però, la rubrica m’impone un tetto massimo di cinquecento pagine.

Contro l’obesità letteraria

Per ragioni di trasparenza, comunque, vorrei aggiungere che ho dei pregiudizi in materia di obesità letteraria: mi hanno sempre insospettito i libri di grandi dimensioni. Ecco perché potrei scrivere un trattato dal titolo Il libro più corto di autori che di solito scrivono libri lunghi: L’incanto del lotto 49, Silas Marner, Ritratto dell’artista da giovane… Li ho letti tutti. Da questo potete dedurre quelli che non ho letto.

E in ogni caso, i libri lunghi e lenti possono avere un effetto demoralizzante sulla vostra vita culturale se avete bambini piccoli e poco tempo per leggere. Ogni sera, prima di dormire, fate solo rapide incursioni in quelle distese sconfinate di pagine, e in poco tempo finite per convincervi che forse è meglio abbandonare del tutto la lettura finché i vostri figli non saranno entrati in riformatorio.

Il mio consiglio di genitore esausto da diciassette anni è di attenervi al romanzo breve: la qualità delle vostre letture non ne risentirà perché vi restano sempre almeno duecento scrittori davvero sensazionali tra cui scegliere: avete letto tutto Graham Greene? O Kurt Vonnegut? Anne Tyler, George Orwell, E.M. Forster, Carol Shields, Jane Austen, Muriel Spark, H.G. Wells, Ian McEwan? Non mi viene in mente neppure uno dei loro libri che superi le quattrocento pagine.

Non starò a dirvi che dovete fare un’eccezione per Dickens, perché noi di questa rivista non crediamo che dobbiate leggere questo o quell’autore: pensiamo che dovete leggere e basta. Solo che un Dickens breve è un Dickens atipico: Tempi difficili, per esempio, abbonda di satira feroce e scarseggia di battute, e Dickens, come ha scritto John Carey nel suo saggio critico The violent effigy, è “essenzialmente uno scrittore comico”. Se decidete di leggerlo, quindi, tanto vale sceglierne uno divertente. Grandi speranze non arriva a seicento pagine ed è uno dei più grandi romanzi mai scritti. Mi sembra un buon punto di partenza.

Un lungo viaggio

Alcuni mesi fa ho accettato di scrivere un’introduzione a Il nostro comune amico di Dickens – circa novecento pagine nella versione tascabile, 2.500 terrorizzanti pagine sull’iPad – e ho aspettato una pausa nelle scadenze della rivista prima d’intraprendere un viaggio così lungo.

Avevo letto Il nostro comune amico per la prima volta anni fa e non mi era piaciuto molto, anche se ero certo che la colpa fosse più mia che dell’autore. Ero preso da tante cose all’epoca – divorzio, malattia, un altro figlio o uno dei tanti imprevisti quotidiani che trasformano la lettura in una fatica – e mi sembrava che Il nostro comune amico non imboccasse mai la strada presa da tutti gli altri suoi grandi romanzi (dopo un centinaio di pagine, se hai avuto la fortuna di apprezzare lo stile narrativo e la visione del mondo di Dickens, arriva un momento in cui senti qualcosa mettersi in moto e prendere velocità: come un treno, o una nave, o un qualsiasi altro mezzo così pesante e imponente da non riuscire a immaginarlo in movimento quando è fermo).

Così, ho accettato l’incarico senza preoccuparmi troppo. Sono ragionevolmente in salute, per qualche anno non ho in programma divorzi e ho smesso di fare figli, quindi ero sicuro che stavolta avrei scoperto che Il nostro comune amico era degno di stare accanto agli altri grandi. In poche parole, stavo per leggere uno dei romanzi più ricchi, fantasiosi, divertenti, tristi ed energetici della storia della letteratura.

A due terzi del libro ero così in crisi che sono andato a leggermi un paio di recensioni dell’epoca. Henry James lo considerava “il più povero dei romanzi di Dickens, di una povertà che non è difficoltà passeggera, ma sfinimento costante”. Un fedele amico di Dickens, John Forster, ammetteva che “non sarà mai annoverato tra i suoi lavori più riusciti”. In poche parole, tutti sapevano che era un fiasco tranne me.

Ma in fondo lo sapevo anch’io, vista la fatica che avevo fatto leggendolo, la prima volta. E ora, a quanto pare, dovevo scrivere un’introduzione in cui spiegare perché è un romanzo fantastico. Di fantastico c’è il quinto capitolo, un lungo brano di scrittura comica all’altezza degli altri suoi romanzi che ho letto (se avete una copia del libro da qualche parte, leggete solo quel capitolo, come se fosse un racconto di Wodehouse).

Quello che c’è di un po’ meno fantastico non è facile da spiegare, perché è legato soprattutto – sì – alla lunghezza e alle complicazioni di una trama ingarbugliata che si trascina per centinaia e centinaia di pagine. “Non ho mancato di industriosità, ma di inventiva”, scriveva mestamente Dickens a Forster, dopo la pubblicazione in fascicoli delle prime due parti del romanzo: una confessione che è una sintesi imbattibile di quello che non funziona nel libro.

C’è da dire che dalle sue pagine non è uscito niente che sia entrato nelle nostre vite. Nessun Artful Dodger, Uriah Heep o Micawber, nessuno Scrooge o Gradgrind, nessuna miss Havisham, nessun processo Jarndyce contro Jarndyce. Forse quello che ci si avvicina di più è un personaggio minore che, parlando delle doti di narratore di un altro personaggio, dice che “rifà la polizia con voci diverse”. Ma qui Dickens ha avuto bisogno dell’aiuto di Eliot, per guadagnarsi l’immortalità.

Per quanto ne so, da allora il romanzo è stato rivalutato fino a diventare una delle opere di Dickens più studiate, cosa che, temo, non ne dimostra il valore: è un libro pieno di temi e immagini e cose da dire su povertà e denaro – in poche parole, materiale a volontà per saggi critici – ma tutto questo non rende più facile arrivare in fondo. Dickens rientrerà molto presto nella mia vita, ma forse la prossima volta sceglierò una delle sue prime opere, non delle ultime.

Nel giardino di un altro

Mi sembra passato un secolo da quando ho letto l’ultimo romanzo di Meg Wolitzer, The uncoupling, e quello di Colum McCann Questo bacio vada al mondo intero (vincitore del National Book Award). E cercare di metterli a fuoco adesso è come cercare di guardare oltre un muro altissimo nel giardino di un altro.

So che mi sono piaciuti, e che tutti e due sono scivolati via in un lampo, ma sono rimasti schiacciati sotto il peso dei grossi stivali di Dickens. Spero proprio che alla fine mi rispunteranno in mente, intatti, come erba fresca. Il romanzo di McCann, come probabilmente molti di voi sapranno, è ambientato a New York nel 1974, quando Philippe Petit camminò su una fune tesa tra le due torri gemelle. Sotto di lui, e tutti in qualche modo toccati da quel gesto di ispirata follia, si muovono i personaggi di McCann, preti, avvocati, prostitute e madri disperate.

È un libro ricco, caldo, profondamente sentito, destinato – credo – a essere amato a lungo. Purtroppo, però, McCann commette un piccolissimo errore in materia di musica pop verso l’inizio del romanzo e, come succede spesso in questi casi, sono rimasto lì un po’ troppo tempo a prendermela con l’autore e con il romanzo.

Ci tengo a sottolineare – perché non è la prima volta che capita – che la mia incapacità di perdonare errori trascurabili di questo genere è una malattia deturpante e sono fermamente deciso a farmi curare. Lo dico solo per spiegare perché un libro che mi è piaciuto molto non è diventato uno di quelli che ho comprato e ricomprato più volte, per appiopparlo a chiunque mi capitasse a tiro.

Leggendo autori come Meg Wolitzer viene da chiedersi come mai siano così pochi a scrivere romanzi acuti, appassionanti e misurati su come e perché la gente comune fa le sue scelte nella vita. Se togliete i romanzi storici, la letteratura di genere, la narrativa postmoderna e quella pretenziosa ed esibizionista, non è che resti granché: il recente successo, al di qua e al di là dell’Atlantico, del bel libro di David Nichols One day dimostra quanta fame ci sia di quella rara combinazione di intelligenza e riconoscibilità.

The uncoupling racconta quello che succede in una cittadina del New Jersey quando tutte le coppie smettono di fare sesso (durante le prove di un allestimento scolastico della commedia di Aristofane Lisitrata in cui, guarda caso, le protagoniste fanno uno sciopero del sesso e si leva una magica brezza che congela i lombi di tutte le donne in età postadolescenziale).

È un romanzo che non può non farvi riflettere anche sul vostro rapporto di coppia: in cosa consiste, cosa resterebbe se venisse a mancare il sesso, fino a che punto sareste disposti ad arrivare pur di conservargli un posto nella vostra vita, e così via. Ho scritto tutte le risposte su un pezzo di carta, ma ho chiuso a chiave quel foglio in un cassetto e non ho intenzione di farlo vedere a voi. Lo sapete quanto mi pagano per questa rubrica? Non abbastanza, ecco quanto.

Una vita doppia

L’unica cosa che ho letto da quando John Harmon e sua moglie si sono trasferiti nella splendida casa di Boffin – così vi ho svelato il finale di Il nostro comune amico, ma tanto ve l’avevo rovinato comunque – è Half a life di Darin Strauss, un libro che, per conto mio, potrebbe tranquillamente essere ripubblicato con il titolo L’opposto del nostro comune amico.

È un semplice e breve esempio di scrittura non narrativa contemporanea, cosa che di per sé basterebbe a farmelo piacere, se non fosse anche accurato, elegante, originale, intelligente e molto triste. Strauss frequentava ancora il liceo quando uccise una sua compagna di scuola in un incidente: Celine Zilke, che aveva sedici anni, sterzò inspiegabilmente con la sua bicicletta saltando due corsie e andando a schiantarsi contro la Oldsmobile di Darin. Morì poco dopo in ospedale. Strauss fu del tutto scagionato da ogni responsabilità, ma per ovvie ragioni è rimasto profondamente segnato da questo incidente. Half a life è l’appassionante tentativo di capire in che modo.

Qualsiasi obiezione morale o etica possiate muovere a Half a life – che diritto aveva Darin di scrivere un libro su questa vicenda, quando quella povera ragazza è morta? – l’autore è il primo ad affrontarla chiedendosi che diritto avesse di fare qualsiasi cosa. Era giusto tornare a scuola, ridere, andare al cinema, guardare chiunque, compatirsi, andare al funerale di Celine, evitare gli amici di lei, parlare con i suoi genitori, uscire dalla propria camera? Da adolescente, Strauss non trovava risposte a queste domande, e da allora non ha più smesso di cercarle.

Half a life potrebbe essere definito un raffinato studio sull’autocoscienza, intesa nel senso più ampio di questa parola: un libro su un uomo che osserva se stesso giovane, che osserva ogni propria mossa, pensiero, sensazione, e li controlla e ricontrolla prima di permettergli di fuggire in un luogo dove possono essere osservati da altre persone.

A quel punto, ricomincia a controllare e ricontrollare. È fin troppo facile per noi dire che quello che è successo a Darin Strauss è una tragedia: certo non una tragedia terribile come quella capitata a Celine e alla sua famiglia, ma comunque una tragedia. Fin troppo facile per noi, ma impossibile per lui, ed è proprio questo a rendere così ricco e significativo il materiale che Strauss trasforma in un saggio memorabile.

“Qualsiasi cosa tu faccia nella vita, ora dovrai farla bene due volte”, gli dice la madre di Celine Zilke, al funerale, “perché vivi per due”. E mentre la maggior parte di noi non vive bene la sua vita neanche una volta, la cura e la riflessione entrate in ogni singola riga di Half a life rivelano non solo uno scrittore di grande talento, ma un essere umano di tutto rispetto.

E così Strauss mi ha fregato. Volevo finire con una battuta fantastica anche se un po’ contorta su Dickens e le mie cuffie Bose rotte, ma ora non sono più sicuro che sia il caso. Quindi mi fermo qui.

*Traduzione di Diana Corsini.

Internazionale, numero 884, 11 febbraio 2011*

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