13 dicembre 2011 16:35

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Charles Dickens: a life, Claire Tomalin

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nessuno

Se tornando a casa una banda di teppisti mi aggredisse in un vicolo buio e mi sbattesse contro un muro minacciando di gonfiarmi di botte se non gli dicessi chi è il mio scrittore preferito… Be’, io non glielo direi. Mi prenderei le botte, piuttosto che mortificare così il mio lungo e sofisticato rapporto con i grandi libri. Più invecchio e più mi sembra assurdo dare una risposta assoluta a questa o a qualsiasi altra domanda del genere.

Ma mettiamo che a quel punto i banditi rivelino di sapere dove abito e mi facciano capire che picchieranno i miei figli se non gli dico quello che vogliono sapere (forse ai lettori americani questa situazione sembra improbabile, ma dovete capire che qui in Gran Bretagna la letteratura suscita passioni violente. In fin dei conti l’abbiamo più o meno inventata noi). Anzitutto, farei un rapido calcolo: mio figlio di sette anni si difende bene, e scommetto che saprebbe cavarsela contro gente che dimostra un qualsiasi tipo di interesse, anche violento, per le arti. Se però i banditi fossero troppi, alla fine e a malincuore farei il nome di Charles Dickens.

E dire che fino a un paio di settimane fa non avevo mai letto una biografia di Dickens. Ho letto una biografia di Thomas Hardy, anche se non lo prendo più in mano da quando ero adolescente e reggevo meglio l’infelicità costante; ho letto le biografie di Dodie Smith e Richard Yates, anche se conosco relativamente poco i loro lavori; ho letto le biografie di Laurie Lee e B.S. Johnson, anche se non ho mai aperto un loro libro, che io sappia.

Ogni volta ero attratto dal biografo più che dal soggetto (il libro su B.S. Johnson l’ha scritto il grande Jonathan Coe, per esempio). L’anno scorso, ho divorato il bellissimo libro di Sarah Bakewell su Montaigne, L’arte di vivere, anche se difficilmente arrivo alla fine di una frase dei saggi di Montaigne senza addormentarmi. Aspettarsi che una biografia sia bella solo perché v’interessa la vita che descrive è esattamente come aspettarsi che un romanzo sia bello solo perché è ambientato in Italia o durante la seconda guerra mondiale, o in qualche altro posto o periodo che vi interessa. L’unica biografia di Dickens che avrei voluto leggere, fino a oggi, era quella di Peter Ackroyd, ma supera le mille pagine e mi ha spinto a chiedermi se non avrei fatto meglio a leggere Barnaby Rudge o Il circolo Pickwick, o uno degli altri due o tre romanzi che non ho ancora finito. Alla fine, inevitabilmente, non ho letto né Ackroyd né Rudge, un compromesso a cui ho tenuto fede fino a oggi.

Claire Tomalin è la mia biografa letteraria preferita. In Gran Bretagna è la biografa letteraria preferita di tutti (tutti ne hanno una, in questo paese di maniaci della letteratura). Tomalin è una critica letteraria brillante, puntuale e sensibile. È anche una straordinaria ricercatrice e ha un sesto senso infallibile per l’interesse e la soglia di attenzione del lettore. Una volta un editore mi ha spiegato la Prima legge delle biografie: diventano sempre più lunghe perché l’autore deve giustificare l’esigenza di scriverne una nuova e dimostrare di avere scoperto cose che non c’erano in quelle precedenti sui vari Churchill, Picasso, Woolf e compagnia bella.

E non si può neanche tralasciare la roba vecchia – l’educazione, gli studi eccetera – perché, insomma, la roba vecchia è “la vita” in senso stretto. Ma Charles Dickens: a life di Tomalin è un libro di 417 pagine, senza note né indice analitico: una lunghezza entusiasmante, considerando l’importanza dell’uomo, la sua enorme produzione e la sua complicata vita personale. Migliore biografa + autore preferito + numero di pagine inferiore a cinquecento = felicità assoluta. O almeno così pensavo. Non mi era mai capitato di lamentarmi di una cosa del genere, ma alla fine avrei voluto che fosse più lunga.

Non sono la persona più adatta a recensirla, comunque, perché non posso fare confronti con le biografie di Ackroyd, Fred Kaplan, il recente Michael Slater o i tre volumi di John Forster, amico di Dickens. Chi si sorbisce più di un libro sulla vita della stessa persona, a parte i fan di Bob Dylan? I recensori delle riviste più sofisticate avranno letto anche tutte le altre biografie, ma qui nel mondo reale immagino che se avete già letto una biografia di Dickens non ne leggerete un’altra, ed è altamente improbabile che ne finiate anche una sola.

Vi perdete qualcosa, però, se non leggete il contributo di Tomalin. È un libro fantastico su un uomo che di mestiere fa lo scrittore, così come il primo dei due monumentali volumi di Peter Guralnick su Elvis, per quanto strano possa suonare il paragone, è un libro fantastico su un uomo che di mestiere fa il musicista. Tomalin, come Guralnick, ignora il mito e si concentra sulla vita quotidiana: le passeggiate che Dickens doveva fare per poter scrivere, la strana intensità vittoriana delle sue amicizie maschili, le preoccupazioni finanziarie, il lavoro a titolo gratuito e, soprattutto, la quasi folle produzione di prosa.

Una cosa è certa: Dickens non pensava ai posteri. Anzi, scommetto che era convinto di essersi giocato per sempre la possibilità di una vita letteraria ultraterrena. Scriveva troppo e troppo in fretta, per sfamare la sua famiglia e il suo ego e per gratificare il suo pubblico. Scrisse Il circolo Pickwick e Oliver Twist contemporanea­mente, consegnando ogni mese un capitolo di 7.500 parole di ognuno dei due romanzi. In seguito, fece lo stesso ancora per Oliver Twist e Nicholas Nickleby. Nel frattempo, lavorava anche come redattore e collaboratore di una rivista, ed era pieno fino al collo di persone che dipendevano da lui (manteneva i suoi genitori, e alla fine ebbe dieci figli, quasi tutti non desiderati, che divennero irresponsabili e dispendiosi com’era stato suo padre). Non aveva neanche trent’anni.

Come spiega Tomalin, ci fu un prezzo artistico da pagare. Nicholas Nickleby ha “una trama caotica e improvvisata” e un ultimo quarto “quasi illeggibile”. L’intreccio di Barnaby Rudge è “sconclusionato” e quello di Martin Chuzzlewit “improbabile e noioso”. La seconda metà di Dombey e figlio non mantiene le promesse della prima, con “la sua trama fiacca e la scrittura ridondante”. Il nostro comune amico è “a tratti noioso” e “la debolezza dell’intreccio è una grave pecca” (ho riletto Il nostro comune amico di recente, e la debolezza di cui parla Tomalin avrebbe fatto impallidire uno sceneggiatore di Beautiful). Solo , e Casa desolata ricevono elogi più o meno incondizionati, anche se le devote e pudiche signore dell’epoca vittoriana erano sempre un problema, e Dickens fece uscire Grandi speranze con un finale popolare e consolatorio.

Se vi sentite in colpa perché non avete mai letto niente di Dickens e non sapete da dove cominciare, Tomalin vi riduce il carico di lettura di qualche milione di parole. Quei libri sopravvivono perché in quasi ogni pagina c’è qualcosa di pregevole – una battuta, una descrizione memorabile, una scena geniale, un personaggio così originale e al tempo stesso rappresentativo delle manie umane da entrare a far parte del linguaggio corrente – e perché in quasi ogni riga c’è un’energia travolgente. Ah, e perché Dickens era amato, ed è ancora amato, ed è sempre stato amato. Nel frattempo, Casa desolata non fu neppure recensito dalle riviste serie: non si curavano di certe stupidaggini.

Se Dickens scrivesse oggi, prima o poi qualche giornalista sarebbe costretto a paragonare la sua vita a quella di una rockstar. Quando si parla della vita da rockstar di Neil Gaiman, David Sedaris o un altro dei tanti autori che riempiono i teatri con i loro reading, c’è sempre una nota di tristezza e di leggera malinconia, come se fosse un segno del terribile imbarbarimento del mondo moderno. Eppure il primo è stato Dickens: ha aperto lui la strada. E forse sarebbe più esatto dire che Bono fa la vita del romanziere vittoriano di successo. Lunghi ed estenuanti tour negli Stati Uniti, con enormi folle adoranti? Fatto. Mancati guadagni per colpa del download illegale? Altro che: gli editori americani non erano tenuti a chiedere il permesso di pubblicare i romanzi, né a pagare diritti d’autore, e Dickens spese un sacco di tempo e di energie per cercare di riparare questo torto, nell’indifferenza generale degli Stati Uniti.

L’interesse pruriginoso della stampa per la vita privata del divo, e i suoi tentativi maldestri di gestirlo? Sia il Times sia il New York Tribune pubblicarono alcune straordinarie lettere di Dickens, che si autoassolveva per il fallimento del suo matrimonio. Adattamenti frettolosi delle opere, fatti solo per sfruttare il successo commerciale di un libro? Dickens vide trasposizioni teatrali di romanzi che non aveva neppure finito. Rapporti professionali che s’incrinano per colpa delle intemperanze e dell’indiscussa avidità dell’artista? Dickens litigava con gli editori per gli anticipi, i diritti d’autore e le date di consegna con una frequenza che avrebbe sfinito anche il più arruffone e arraffone degli agenti letterari di oggi. Ostentazione di amicizie internazionali? Incontrava presidenti e monarchi, e sembra che conoscesse tutti gli scrittori suoi contemporanei che voi abbiate mai sentito nominare.

Una delle storie più straordinarie è quella di Dostoevskij che va a trovare Dickens nel suo studio di Wellington street, a Covent Garden: nel raccontare questo incontro in una lettera a un amico, Dostoevskij ci dà solo un’idea di quello che oggi definiremmo il processo creativo di Dickens: “Mi ha detto che in lui c’erano due uomini: uno che prova ciò che un uomo dovrebbe provare, e l’altro che prova tutto il contrario. Da quello che prova il contrario traggo i miei personaggi malvagi, da quello che prova ciò che un uomo dovrebbe provare cerco di farmi guidare per vivere la mia vita. Io gli ho chiesto: gli uomini sono solo due?”.

È abbastanza. Quilp e Steerforth, Uriah Heep e madame Defarge, Fagin e Bill Sikes e tanti altri… Se sono tutti nati dal lato oscuro di Dickens, allora dobbiamo ringraziare il cielo che la psicoterapia non fosse ancora stata inventata. Altrimenti, qualche volenteroso strizzacervelli l’avrebbe convinto a scacciare dalla mente queste straordinarie creature semiumane, fino alla loro completa dissoluzione.

Mi sono ritrovato a pensare parecchio agli anni formativi di Dickens e all’incapacità dei suoi genitori di prendersi cura di lui in modo adeguato. Senza obblighi scolastici, il piccolo Charles era libero di girovagare per le strade, costruendosi una sorta di mappa mentale di Londra e scoprendo quanto era breve la strada che lo portava dagli splendori di Regent street alla miseria di Camden e Covent Garden. Andava a trovare suo padre, che con la sua cronica cattiva gestione del patrimonio familiare era finito nella prigione della Marshalsea, destinata ai debitori, dove viveva la famiglia della piccola Dorrit.

Il periodo in cui Charles lavorò in una fabbrica di lucido da scarpe gli aprì un mondo completamente nuovo: un mondo in cui i bambini lavoravano, e soffrivano. Tutto quello che deve fare un padre, sostanzialmente, non è altro che guadagnare dei soldi, non finire in prigione e assicurarsi che suo figlio vada a scuola: John Dickens fallì su tutti e tre i fronti, ed è direttamente responsabile di alcune delle più grandi opere di narrativa in lingua inglese. Non vi sto consigliando di sperperare i vostri soldi e lasciare che vostro figlio undicenne se ne vada in giro per i quartieri malfamati della più vicina metropoli. Ma se vi capita di distrarvi, non siate troppo severi con voi stessi: è possibile che vada tutto bene.

Una delle cose che non mi hanno aiutato affatto negli anni formativi della mia carriera sono stati i consigli prescrittivi di scrittori affermati, anche se all’epoca ne avevo un disperato bisogno. Roba del tipo: “Dovete fare almeno quindici stesure”, “Ci vogliono cinque anni per produrre un buon libro”, “Imparate a memoria l’Ulisse”, “Imparate a riconoscere gli alberi”, “Leggete il vostro libro a voce alta al gatto”. Io non distinguo una quercia da qualsiasi altro albero, di cui per altro non saprei dirvi il nome neanche a titolo di esempio, eppure in qualche modo me la sono cavata.

Se entrate in una libreria vedrete opere di scrittori che pubblicano un libro ogni tre mesi, scrittori che hanno cinque figli, scrittori che pubblicano un libro ogni venticinque anni, scrittori che non scrivono mai quando sono sobri, scrittori che scrivono pensando ai diritti cinematografici, scrittori che non pensano mai ai soldi, scrittori che, secondo il vostro giudizio, non sanno scrivere affatto. Non importa: hanno fatto il loro lavoro e ora sono lì, su quegli scaffali. Forse non ci resteranno per sempre: la decisione, oggi e per un bel pezzo ancora, spetta ai lettori. Lo splendido e autorevole libro di Tomalin è prima di tutto la storia di un uomo che ha fatto il suo lavoro, e su commissione: milioni di parole di lavoro, svolto nonostante le distrazioni e le disgrazie. Tutto il resto – la fama, i soldi, la gigantesca ombra che continua a gettare su quasi tutti quelli che hanno scritto dopo di lui – viene da lì. Non c’è altro che valga la pena di sapere sulla scrittura, in realtà.

*Traduzione di Diana Corsini.

Internazionale, numero 927, 8 dicembre 2011*

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