07 dicembre 2014 20:20

“Non è il potere a corrompere ma la paura. La paura di perdere il potere”. A parlare è Aung San Suu Kyi, attivista e politica birmana, simbolo mondiale di cosa può significare oggi la lotta non violenta. Nobel per la pace nel 1991, questa donna si è opposta per quasi trent’anni alle dittature militari che si sono succedute in modo sempre più orribile e grottesco nel suo paese. Ha subìto privazioni, ha visto soffrire e poi morire molti suoi compagni della Lega nazionale per la democrazia. È stata calunniata, isolata, messa ripetutamente agli arresti – la somma dei periodi detentivi supera i vent’anni – e ha sopportato ogni vessazione con una compostezza quasi soprannaturale. È tornata libera di recente, nel 2010, anche sull’onda delle proteste internazionali (il Nobel ha potuto ritirarlo ventun anni dopo averlo vinto), ed è attualmente l’unica donna a sedere nel parlamento di un paese in faticosa transizione democratica.

“È molto facile dare il Nobel a una sola persona. Ma io non sono mai stata picchiata, torturata. Non sono mai stata rinchiusa dentro una cella per cani. Molti del nostro movimento hanno subito maggiori sofferenze… molti sono morti per i nostri ideali. È per loro che ho ricevuto quel premio”.

Una scena da Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi. (Enrico Fedrigoli)

E a parlare, sintonizzandosi con la parte invisibile di Aung San Suu Kyi – una seduta spiritica tra vivi, nel corso della quale il trasporto del pubblico serve al medium per funzionare a dovere – è in questi giorni il corpo di Ermanna Montanari. Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi è il titolo del nuovo spettacolo del Teatro delle Albe. Scritto e diretto da Marco Martinelli, con Ermanna Montanari a incarnare Suu Kyi, e con Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu, Fagio. Lo spettacolo sarà in giro per l’Italia dalle prime settimane del 2015, ma per adesso potete vederlo a Ravenna, al teatro Rasi, fino al 14 dicembre.

Già, Ravenna. Guardare il Teatro delle Albe che gioca in casa non mi era mai successo. Ravenna è stata appena nominata la città italiana in cui si vive meglio, e arrivare allo spettacolo andandosene in giro per il centro può essere istruttivo. Non sarà il percorso iniziatico auspicato da Artaud come giusto avvicinamento alla mistica teatrale, ma è comunque un buon esercizio preparatorio. Passeggiando da via Beccarini a via Diaz, capita di imbattersi in almeno cinque librerie, fumetteria compresa. Sempre su via Diaz c’è il Caffè letterario – un posto caldo, accogliente, pieno di gente che viene a vedere gli scrittori anche nei giorni di pioggia grazie a una fortunata rassegna ideata da Matteo Cavezzali e Stefano Bon.

Man mano che ci si avvicina al Rasi, fermandosi a prendere un bicchiere di sangiovese, chiacchierando con avventori ed esercenti, si capisce qualcosa della Romagna che – a cavallo tra i novanta e gli anni duemila – generò forse il miglior teatro di ricerca di tutta Europa. Una borghesia non ricchissima ma abbiente, più progredita sul piano culturale della media nazionale, con poche fastidiose punte di provincialismo appesantite dai depositi bancari (ma questo forse più in Emilia, sull’asse Parma-Modena-Reggio), politicamente di sinistra, incline a sparare a zero sul Partito democratico potendoselo permettere poiché il senso di appartenenza a una comunità qui tiene. Tiene come dovrebbe fare, ma è fortissimo se confrontato con ciò che accade in altre parti d’Italia. È il segreto di questi luoghi: una provincia che si protegge con serenità dall’influenza del centro (le fabbriche culturali di Roma e Milano) evitando di chiudersi in se stessa, selvatica il giusto, abbastanza consapevole della propria identità da prendere da fuori il meglio senza lasciarsene colonizzare. Insomma, l’esatto contrario del provincialismo.

Da una comunità solida nasce un teatro vero, ricondotto alla propria dimensione originaria: essere il prodotto di una polis anche disposta a farsi mettere in crisi – e dunque salvare – dalla dimensione pubblica dell’arte. I risultati sono abbastanza impressionanti. Socìetas Raffaello Sanzio e Valdoca a Cesena. Motus a Rimini. Masque a Forlì. Fanny&Alexander e le Albe a Ravenna. Accademia Perduta tra Forlì e Ravenna. A Santarcangelo il festival teatrale prossimo alla quarantaquattresima edizione. In un’area geograficamente non tanto vasta vive un distretto culturale dall’enorme peso specifico. Un’iniziale carica spontanea si è fatta scuola, tanto che quando le amministrazioni cambiano, o i maggiori interpreti sul piano artistico se ne allontanano o perdono un po’ di smalto (amo la Raffaello Sanzio e Castellucci, ma l’esplosione delle ricchissime scenografie e il successo internazionale dell’ultimo decennio non mi hanno emozionato quanto un loro incredibile Amleto con Paolo Tronti visto negli anni novanta in una palestra talmente spoglia e livida da sfiorare il trascendente) l’intero meccanismo ne è scalfito ma non crolla perché non regge sulle spalle di un unico gigante.

Non è per intenderci Carmelo Bene che, solo o quasi contro tutti, nella cecità generalizzata delle istituzioni anima il Teatro Laboratorio di Roma all’inizio degli anni sessanta. Piuttosto, una parte non isolata della cittadinanza ritiene in Romagna che il teatro sia importante, e non solo lo fa pesare sul piatto della bilancia politica, ma si attiva in prima persona. Tutti i gruppi menzionati sono stati finanziati dai rispettivi comuni e dalla Regione, oltre a ricevere contributi da fondazioni bancarie e sponsor privati. Assessori alla cultura capaci di cogliere la differenza tra Brecht e squacquerone (così come altrove si fatica a distinguere tra Gadda e pecorino), fondazioni consapevoli del proprio mandato, imprenditori toccati dall’idea che acquistare una squadra di calcio non sia il massimo cui si può aspirare per lasciare un segno.

Non è tutto oro, anche qui i problemi ci sono, e nessun sistema è immune da tarli se la società civile non vigila abbastanza. A fare un’indagine tra i ravennati, ti dicono che un bel po’ di clientelismo esiste anche qua, i politici inetti o facili da cooptare non mancano (”siamo pur sempre in Italia”), che i dati sull’inquinamento sono poco chiari (”il nostro polo chimico non sarà l’Ilva ma c’è da stare attenti”), che l’amianto l’hanno sotterrato anche da queste parti, che l’estrazione degli idrocarburi minaccia le coste, che i servizi non sono quelli di Agrigento ma nemmeno siamo in nord Europa, che la palma della città più vivibile del paese “ce l’han data in fondo quelli di Confindustria, che han parametri tutti loro, e chissà che interessi avevano”. E comunque, ti dicono, “siam pur sempre lontani dai centri che contano davvero, non è che qui succeda poi chissà che”.

Una scena da Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi. (Enrico Fedrigoli)

Se ci arrivi da altre province, tuttavia, non puoi non provare un pizzico di invidia almeno per come è organizzata la cultura. Su piani molto diversi, una simile tutela della dimensione comunitaria l’ho vista di recente in certe aree della Basilicata. Non è un caso se Matera ha strappato proprio a Ravenna la palma di capitale europea della cultura 2019 – ma a dirlo con troppa enfasi la gente sbuffa e inizia a innervosirsi, protesta per la scelta dei commissari (”l’hanno fatta su base geografica, perché toccava al sud. Noi lo meritavamo di più”), o al contrario arde di feroce soddisfazione (”hanno fatto bene! Te l’avevo detto che non siamo la città italiana con la migliore qualità della vita!”), così meglio dirigersi verso il teatro Rasi.

A Ravenna, il Teatro delle Albe ci lavora da più di trent’anni. Il comune ha affidato alla compagnia la gestione del Rasi e della stagione di prosa all’Alighieri, ma questa è la punta dell’iceberg. Sono anni che Marco Martinelli e i suoi tengono laboratori nelle scuole (denominati non-scuola), in questo modo hanno dato vita a un vivaio dal quale, a propria volta, sono nate altre compagnie come Menoventi, ErosAntEros, o quel TatroOnnivoro che nel Centro Culturale Valtorto (una ex scuola elementare di campagna) cura la rassegna del Teatro Elettrico.

Il Rasi – una chiesa monastica del tredicesimo secolo, trasformata in cavallerizza durante il periodo napoleonico, convertita infine in sala teatrale nel 1874 – è il centro ideale di questa polis. E non è un caso che sul palco del Rasi, e proprio a opera delle Albe, vada in scena la storia di Aung San Suu Kyi, che alla rinascita di una polis stuprata ripetutamente (la Birmania delle dittature militari) ha consacrato la vita.

“Quanto è lontana la Birmania?”

Questo si domanda Ermanna Montanari/Sun Kyi all’inizio dello spettacolo. Nonostante Rangoon sia distante anche dal nostro immaginario e gli abusi della dittatura militare abbiano poco a che fare con i periodi più disastrosi della nostra democrazia, l’istinto di sopraffazione, la menzogna, la prepotenza condita di stupidità in cui prospera il sogno osceno del potere sembrano avere una radice comune a ogni latitudine. Soprattutto agiscono secondo strategie immutabili contro chi a quel potere ha il coraggio di opporsi – così come, specularmente, nella parte più intima e nascosta degli oppositori vibra una nota comune. Aung San Suu Kyi come Gandhi, come Mandela, come Martin Luther King, come i monaci del Vietnam che si davano fuoco per protesta…. per quanto lei per prima respingerebbe i paragoni, dal momento che la matrice dell’enfasi che li sostiene proviene dal buonismo radical chic che nuoce a tutte le vere buone cause.

Stringendosi intorno a Ermanna Montanari, il Teatro delle Albe segue la vicenda di Suu Kyi in diciotto “quadri” la cui cornice (scenografica, musicale, vocale, corporale, tutto in tensione e in lotta col nucleo irriducibile di Suu/Ermanna) si dissolve nei momenti più alti in una staticità – e una quiete dorata – da pagoda.

Rimasta orfana a due anni dopo l’omicidio del padre (il generale e padre della patria Aung San), mentre il paese scivola verso la dittatura Suu Kyi cresce e si forma all’estero – Regno Unito e Stati Uniti, dove conosce il suo futuro marito Michael Aris. Torna in Birmania all’età di quarantatré anni, nel 1988, per assistere la madre malata. È qui che comincia un’altra storia. Investita dalle aspettative di un intero popolo, Suu Kyi fonda la Lega nazionale per la democrazia, e – ispirandosi ai maestri della non violenza – inizia a sfidare i militari. Arroganza contro pazienza, isteria contro mansuetudine, fino a quando i generali, pazzi di rabbia per qualcosa che percepiscono come una spina nel fianco senza riuscire a capire meglio di che sostanza sia fatta, commettono l’errore di sfidare Suu proprio sul terreno invocato dalla donna: le elezioni. La vittoria di Suu Kyi è schiacciante. Allora i militari annullano il risultato elettorale e la mettono agli arresti domiciliari. Arrestano i suoi compagni di lotta, li torturano, li uccidono.

Una scena da Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi. (Enrico Fedrigoli)

La tortura che subisce di Suu Kyi è di natura diversa – totale isolamento, miseria, una gigantesca macchina propagandistica pronta a calunniarla alla minima occasione, infine l’atroce libertà di decidere se abbandonare il paese quando l’amato marito, malato di cancro, è in fin di vita a Oxford. È lì che i generali potrebbero sbarazzarsi finalmente di lei (impossibilitati a eliminarla fisicamente a causa dell’amore popolare da cui è circondata, e delle proteste internazionali sempre più veementi, se Suu Kyi decidesse di uscire dal paese di sua spontanea volontà potrebbero poi negarle il visto per rientrare), ed è quella, forse, l’unica volta in cui Suu Kyi tentenna. (Bellissima, nella ricostruzione delle Albe, la lotta tra Suu e gli spiriti tentatori della tradizione birmana). Ma poi Suu decide di restare, di continuare la lotta d’accordo col marito (il quale accetta di morire senza ricevere l’ultimo saluto dell’amata), fino alla liberazione finale, molto tempo dopo, nel 2010.

Cosa colpisce di più della versione delle Albe di questa storia esemplare? Certo, la sfilata dei militari che volta per volta si contrappongono a Suu Kyi è affascinante e disturbante per quanto le perversioni del potere non conoscano confini. Dal fantasma del generale Ne Win (”ho inventato la via birmana al socialismo. Dare una prospettiva al paese e io glie l’ho data! Abbiamo semplificato! La semplificazione è una cosa meravigliosa! Basta con le forme curve e le sfere e le idee complicate. Solo angoli retti, precisi. Un unico partito, via i giornali, via la costituzione, via i sindacati, chiuse le università!”); a Saw Maung, che organizzò il golpe del 1988 (”basta con la via birmana al socialismo. Da oggi Slorc Slorc Slorc! Consiglio di Stato per la Restaurazione della Legge e dell’Ordine. Vi sentite rassicurati? Vi piace? Suona bene. Tribunali militari al posto di quelli civili. Arresto immediato per chi si trova a fare riunioni non autorizzate con più di quattro persone. Anche perché quella là, con il discorso della pagoda dorata, aveva infiammato gli animi”), e cambiò nome al paese (”basta con la Birmania, da oggi ci chiameremo Myanmar! E già che ci sono cambio anche il nome della capitale, sostituisco Rangoon con Yangon, che in birmano significa FINE DEI PERICOLI”), e logorato dall’esercizio del potere cominciò a dare di matto (”alla fine del 1991 ho dichiarato in televisione di essere il re Kyansittha. Il grande monarca del medioevo: redivivo. No, non me l’aveva detto l’astrologo, avevo avuto una rivelazione divina tutta mia. Avevo anche incontrato Gesù in Tibet. A quel punto i colleghi han sentenziato che era troppo, e mi hanno costretto alle dimissioni”); all’ancora più inquietante generale Than Shwe (”sei anni di arresti non l’hanno stroncata. E adesso è ancora più popolare. Ma noi non ci faremo prendere in giro. Dicono che siamo conservatori? Dicono che siamo contro il cambiamento? E io ve lo offro al volo, il cambiamento, eccolo! Spdc! Via il nome Slorc, che fa paura solo a sentirlo, d’ora in poi ci faremo chiamare Spdc. Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo. Spdc! Spdc! Spdc!”.

I deliri di questi dittatori possiedono, come si diceva, un fascino perverso tutto loro. Ma non è su questo che si regge lo spettacolo. Di simili personaggi il nostro immaginario è pieno (dalla letteratura, al cinema, alla semplice cronaca: basti pensare a cosa si potrebbe costruire oggi intorno alla figura di Kim Jong Un), la loro patologia è funestata da tic, lapsus e incidenti linguistici talmente ricorsivi da sfiorare – nella realtà, e nella trasfigurazione artistica – la maniera. La cosa stupefacente è invece come, sul palcoscenico, la loro retorica e la violenza standard si stringa intorno al corpo di Ermanna Montanari. È quello il centro dello spettacolo.

Una scena da Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi. (Enrico Fedrigoli)

Ora. Vedere recitare Ermanna Montanari è qualcosa che chiunque sia sensibile alle arti (o alla mistica dei corpi) dovrebbe fare almeno una volta nella vita. È un po’ come vedere giocare Maradona o Federer. Qualcosa di simile a ciò che doveva essere osservare Rudolf Nureyev dal vivo. Ma io Nureyev non l’ho mai visto. Maradona invece sì, in diverse occasioni. E anche quando non era in forma, o la squadra non girava a dovere intorno a lui, era impossibile confonderlo con chiunque altro si fosse mai visto tirare calci a un pallone. Un alieno. Con Ermanna Montanari accade qualcosa di simile. Una delle più grandi attrici del nostro tempo, non solo in Italia. Il sodalizio con Marco Martinelli, che da anni inventa, scrive e dirige gli spettacoli in cui lei è protagonista ha qualcosa di magico. Il che non vuol dire che nello spettacolo dedicato a Aung San Suu Kyi il resto delle Albe faccia da scenografia affinché la sua figura risalti sempre più. Se il corpo della Montanari diventa così credibile e rivelatorio è al contrario perché gli altri attori, e la musica di Luigi Ceccarelli, e le luci di Francesco Catacchio e Enrico Isola, si stringono sapientemente intorno a lei senza soluzione di continuità, in modo che – da questa tensione continua – venga fuori la cosa determinante.

La cosa determinante è il mistero di Aung San Suu Kyi. Che cos’ha, di speciale, una persona migliore di noi? Migliore anche di Ermanna Montanari, davanti alla quale pure ci sentiamo inadeguati, e che qui – con umiltà, e la sua tecnica prodigiosa – prova a sintonizzarsi con la lontana presenza di questo gigante del ventunesimo secolo. Aung San Suu Kyi. Una persona buona, dalla mitezza d’acciaio. Qual è il segreto delle grandi anime? Il segreto dei Gandhi, dei Mandela, dei Martin Luther King? Cos’hanno più di noi? Perché ci piacerebbe essere come loro, ma non ci arriviamo neanche da lontano? Cosa ci separa, dal poter sentire, almeno per un attimo, ciò che muove i loro gesti? A separarci è una voragine? O un piccolo, determinante, ma quasi invalicabile dislivello? Ecco perché il teatro. Se non fossero necessari i corpi vivi, sarebbe stato sufficiente un film – anche bellissimo – su Aung San Suu Kyi. La specificità teatrale ci lascia invece una diversa opportunità. Quella di veder affiorare (o meglio sentire per un attimo, grazie alla contiguità dei corpi, i nostri e di chi sta in scena), sera dopo sera, seduta spirita dopo seduta spiritica, sulla pelle di Ermanna Montanari, e dunque sulla nostra, qui a Ravenna, Romagna felix, qualche traccia della vera Aung San Suu Kyi.

Nicola Lagioia è uno scrittore. Ha vinto il premio Viareggio-Rèpaci nel 2010 con il romanzo Riportando tutto a casa. Il suo ultimo romanzo è La ferocia (Einaudi 2014)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it