19 marzo 2009 00:00

Più di mille anni fa la zona occupata oggi dalla Bolivia era una terra fiorente. Secondo gli archeologi, era abitata da una società ricca, raffinata e complessa.

Oggi il paese, insieme a gran parte dell’area che va dal Venezuela fino all’Argentina, sta vivendo una rinascita: negli ultimi dieci anni l’America Latina è diventata la regione più progressista del mondo.

Le iniziative prese in tutto il subcontinente hanno avuto un impatto significativo sui singoli paesi e sulla lenta affermazione delle istituzioni regionali: per esempio il Banco del sur, promosso nel 2007 dall’economista premio Nobel Joseph Stiglitz a Caracas, in Venezuela. E l’Alba, l’Alternativa bolivariana per l’America Latina e i Caraibi, che potrebbe davvero rivelarsi un’alba se le sue promesse si realizzassero.

L’Alba viene spesso descritta come un’alternativa alla Zona di libero scambio delle Americhe (Alca), sponsorizzata dagli Stati Uniti, ma è una definizione fuorviante. Dovrebbe essere vista come un progetto di sviluppo indipendente, non come un’alternativa.

Un’altra organizzazione regionale promettente è l’Unasur, l’Unione delle nazioni del Sudamerica, costruita sul modello dell’Unione europea. Obiettivo dell’Unasur è istituire un parlamento del Sudamerica a Cochabamba, in Bolivia.

Scelta appropriata: nel 2000 la popolazione di Cochabamba si è battuta contro la privatizzazione dell’acqua, guadagnandosi la solidarietà internazionale e dimostrando che l’impegno civile, quando riguarda temi concreti, può essere molto efficace.

Il nuovo dinamismo del cono sud è partito dal Venezuela dopo l’elezione nel 1998 di Hugo Chávez, un presidente di sinistra che ha deciso di mettere le abbondanti risorse del paese al servizio del popolo invece che dei ricchi venezuelani e stranieri.

Caracas vuole promuovere l’integrazione regionale, premessa indispensabile per l’indipendenza, la democrazia e lo sviluppo. Chávez non è solo in questa battaglia, come dimostra il caso della Bolivia, il paese più povero del continente, che nel 2005 ha compiuto un passo importante verso una vera democratizzazione dell’emisfero.

La maggioranza indigena del paese ha eletto un suo rappresentante, Evo Morales, perché realizzasse un programma voluto dalle organizzazioni popolari. Ma la sua elezione è solo un inizio. Ci sono ancora molte questioni da affrontare: il controllo delle risorse, i diritti culturali e la giustizia in una società multietnica complessa, oltre all’enorme divario economico e sociale tra la grande maggioranza e l’élite benestante, espressione della classe dirigente tradizionale.

Nel settembre del 2008, durante un vertice d’emergenza dell’Unasur a Santiago del Cile, i leader sudamericani hanno annunciato “il loro pieno e fermo sostegno al governo legittimo del presidente Evo Morales”. Morales ha ringraziato l’Unasur, osservando che “per la prima volta nella storia del Sudamerica i paesi della regione stanno decidendo autonomamente come risolvere i loro problemi, senza l’ingerenza di Washington”.

Gli Stati Uniti hanno dominato l’economia boliviana – soprattutto le esportazioni di stagno – fin dagli anni cinquanta. Le politiche economiche imposte al paese sono state un assaggio dei programmi di aggiustamento strutturale neoliberisti che, trent’anni dopo, Washington e il Fondo monetario internazionale avrebbero imposto a tutto il continente.

Programmi che hanno avuto effetti disastrosi ovunque siano stati applicati. Ora tra le vittime del fondamentalismo neoliberista cominciano a esserci anche i paesi ricchi, dove la liberalizzazione finanziaria ha provocato la grave crisi attuale. Gli strumenti tradizionali del controllo imperialista – la violenza e la guerra economica – si sono allentati. Ora il Sudamerica può scegliere davvero.

Controllare l’America Latina è sempre stato un obiettivo della politica estera statunitense. Senza il controllo del subcontinente, Washington non avrebbe mai potuto “stabilire un ordine compiuto in nessun’altra zona del mondo”, concludeva nel 1971 il Consiglio di sicurezza nazionale di Nixon, valutando l’importanza strategica di annientare la democrazia cilena (come poi avrebbero fatto).

La Casa Bianca ha sostenuto la democrazia solo quando corrispondeva agli interessi strategici ed economici statunitensi, una politica seguita da tutte le amministrazioni, compresa quella attuale.

In un’America Latina che ritrova fiducia in se stessa, l’integrazione ha almeno tre dimensioni. Quella regionale, condizione essenziale per raggiungere l’indipendenza e per impedire ai padroni dell’emisfero di separare i paesi tra loro.

Quella globale, attraverso la costruzione di relazioni Sud-Sud e la diversificazione di mercati e investimenti, con la Cina che diventa un partner sempre più importante negli affari dell’emisfero. E infine quella interna, forse la più fondamentale delle tre.

L’America Latina deve risolvere ancora molti problemi, ma diversi sviluppi fanno sperare in un’era di globalizzazione autentica: cioè di integrazione internazionale nell’interesse dei popoli e non degli investitori o di altri poteri forti.

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