Da un recente studio è emerso che, per quanto riguarda le pulizie di casa, gli uomini non fanno ancora la loro parte (è una ricerca commissionata dal governo degli Stati Uniti. Potrebbe esserci un articolo interessante su questa notizia sotto tutta quella robaccia sparsa sul tavolino, se ci prendessimo la briga di fare un po’ di ordine).

Ormai la cura dei figli e la cucina sono piuttosto condivise, ma è molto più probabile che a togliere le briciole dal tappeto con l’aspirapolvere finiscano per essere le donne. Questo ha spinto l’editorialista Jon Chait a fare una domanda provocatoria: non potrebbe essere semplicemente che gli standard di pulizia degli uomini sono più bassi? “L’appartamento che mio fratello condivideva con due amici ai tempi dell’università era così sporco che l’ufficio d’igiene locale li denunciò”, ha scritto. “Sul pavimento c’era da un anno una macchia di frullato: era diventata una sinistra chiazza argentea che suscitava curiosità”.

Da un altro studio è emerso che gli uomini single, se non c’è nessun altro a occuparsene, puliscono la metà delle donne che vivono da sole. In questo c’è di sicuro una componente di sessismo – forse è la pressione sociale a spingere le donne a pulire di più – ma dimostra anche che le persone possono avere una visione diversa dell’igiene. Per aver voglia di pulire, dobbiamo prima accorgerci dello sporco e deve importarcene qualcosa.

Ogni nostra azione dipende, prima di tutto, da quello che riteniamo degno di attenzione

In un certo senso, mi è tornato in mente il frullato di Chait mentre leggevo Hidden in plain sight: the social structure of irrelevance, l’ultimo libro del sociologo Evitar Zerubavel. La sua tesi principale è che ogni nostra azione dipende, prima di tutto, da quello che riteniamo degno di attenzione: il disordine, o qualsiasi altra cosa, non ci interessa se non lo “vediamo” come una parte importante della realtà.

Il famoso esperimento del “gorilla invisibile” illustra questo concetto al livello di percezione visiva: i soggetti di uno studio ai quali era stato chiesto di contare i passaggi tra i giocatori di una partita di basket in un video non si accorgevano di una persona in costume da gorilla che attraversava lo schermo (è stato dimostrato che anche la maggior parte dei radiologi non si accorge dei gorilla in miniatura aggiunti su una tac). Secondo Zerubavel questo vale per tutto il nostro approccio alla realtà, che dividiamo in cose importanti “in primo piano” e cose irrilevanti “sullo sfondo”.

E il concetto di rilevanza è soggettivo. Così si spiega la storiella dell’operaio sovietico che ogni sera spinge una carriola piena di immondizia attraverso i cancelli della fabbrica in cui lavora. Il guardiano è convinto che stia rubando qualcosa, ma non può dimostrarlo. Qualche anno dopo, quando entrambi sono ormai in pensione, il guardiano gli chiede: “Adesso puoi dirmelo, che cosa rubavi?”. “Carriole”, risponde lui.

Non è solo un filosofeggiare astratto. Portando in primo piano qualcosa si può cambiare il mondo: per esempio, osserva Zerubavel, un tempo il problema del fumo era sullo sfondo, adesso che è stato portato in primo piano è più facile combatterlo. Uno dei motivi per cui è un incubo lavorare o vivere in certi edifici è la cosiddetta cecità architettonica: è stato dimostrato che gli architetti, più di altre persone, tendono a vedere le costruzioni come oggetti separati, senza preoccuparsi di come si integrano nell’ambiente circostante.

Da qui deriva il consiglio tanto frequente per favorire la creatività: estraniarsi dal mondo circostante. Cominciare a notare lo spazio tra gli oggetti, il silenzio tra i suoni. “Vedere quello che abbiamo sotto il naso richiede un impegno costante”, scriveva George Orwell. Attenti, però: se diventate troppo bravi a farlo, potreste ritrovarvi a pulire molto di più.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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