24 settembre 2019 15:45

Nel lontano 1964, nel suo libro A che gioco giochiamo, lo psichiatra Eric Berne descriveva uno schema di conversazione del tipo “Perché invece… Sì, ma…”, che rimane uno degli aspetti più irritanti della vita sociale quotidiana.

Chi adotta questa strategia di solito è una persona che si lamenta sempre. C’è qualcosa che assolutamente non va nel suo rapporto di coppia, lavoro, famiglia estesa o qualsiasi altra cosa e se ne lagna di continuo, ma trova sempre una scusa per respingere qualsiasi soluzione gli venga proposta.

Questo, naturalmente, perché in realtà non vuole una soluzione, vuole solo la conferma che il mondo ce l’ha con lui o con lei. Se riesce a “vincere” a questo gioco, cioè a respingere qualsiasi suggerimento fino a quando il suo interlocutore non si arrende per l’esasperazione, sente di avere diritto al suo risentimento e si ritiene scusato da qualsiasi obbligo a cambiare. Conosciamo tutti almeno una persona così. A essere sinceri, a volte temo di conoscerla così bene da usare lo stesso spazzolino da denti.

Il neonato sulla porta
Il problema qui è in parte dovuto a quella che lo scrittore Mark Manson chiama “l’invalidità della teoria della colpa/responsabilità”. Quando ci sentiamo trattati ingiustamente – quando il nostro partner dà per scontata la nostra disponibilità, per esempio, o quando siamo obbligati a lavorare per un capo idiota – è facile convincerci che non spetta a noi risolvere il problema, e che se lo facessimo sarebbe come ammettere le nostre colpe. Ma qui c’è un po’ di confusione.

Davanti alla convalida delle loro lamentele spesso è come se le persone le ascoltassero per la prima volta e quindi cominciano a replicare

Per usare l’esempio di Manson, se io trovassi un neonato sulla porta di casa, non sarebbe certo colpa mia, ma senza dubbio avrei qualche responsabilità. Dovrei fare delle scelte, e non sarebbe possibile evitarle, dato che anche cercare di ignorare la cosa sarebbe una scelta. Il fatto è che quello che vale per il neonato sulla porta vale anche per tutti gli altri casi: pur ammettendo che la colpa sia al 100 per cento di un’altra persona (e anche se rinunciare al lavoro o al rapporto fosse l’unica scelta possibile), alla lunga non avremmo niente da guadagnare a usare questa giustificazione per non assumerci la responsabilità.

Se per caso vi trovaste a essere voi ad ascoltare questo tipo di lamentele, c’è un modo ingegnoso per uscirne, ed è dichiararsi perfettamente d’accordo. La psicanalista Lori Gottlieb la chiama “ipervalidazione” (“Il tuo capo dovrebbe essere licenziato, è terribile che tu non possa fare assolutamente nulla per migliorare le tue condizioni di lavoro”). Tanto per cominciare, vi risparmierete ulteriori lagnanze, dato che l’altra persona vuole solo avere la conferma di quello che pensa, e voi gliel’avete data. Inoltre, come osserva Gottlieb, davanti a una ipervalidazione spesso è come se le persone sentissero per la prima volta le loro lamentele e cominciassero a ragionarci. L’idea di essere del tutto impotenti improvvisamente gli sembra poco credibile – per non dire piuttosto seccante – e quindi sono stimolate a pensare come potrebbero cambiare le cose.

“E poi a volte succede qualcosa di magico”, scrive Gottlieb. L’altra persona “si rende conto di non essere affatto in trappola come state affermando, o come si sente”. Il che dimostra il paradosso dell’invalidità di colpa/responsabilità: sottrarsi alle responsabilità può sembrare comodo, ma poi si rivela una prigione, mentre assumersele può sembrare spiacevole, ma alla fine è liberatorio.

Consigli di lettura
Il libro di Eric Berne A che gioco giochiamo è stato un bestseller negli anni sessanta, ma la sua analisi della nostra vita quotidiana è più attuale che mai.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo libro è uscito sul settimanale britannico The Guardian.

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