04 giugno 2010 11:44

Settant’anni fa, la sera del 10 maggio 1940, un robusto e discusso leader britannico entrò a Buckingham Palace per un’udienza con re Giorgio VI. Il sovrano gli chiese di diventare primo ministro e di formare il governo. Quell’uomo robusto si chiamava Winston Churchill. A quel tempo (e ancora oggi) quel cambio di leadership fu considerato un evento decisivo.

L’arrivo al potere di Churchill cambiò molte cose. Fu lui a unire la nazione britannica facendo entrare esponenti laburisti e liberali nel suo gabinetto di guerra, e fu lui a unificare le strutture di comando della difesa, fino ad allora separate, e ad aumentare i poteri del capo del governo. Quale migliore dimostrazione della tesi di Thomas Carlyle sull’importanza dei grandi uomini nella storia?

Churchill era anche dotato di uno straordinario talento retorico: ancora oggi è difficile non emozionarsi riascoltando le registrazioni dei grandi discorsi che tenne alla radio durante la guerra. Non stupisce, quindi, che Churchill sia sempre in testa alle classifiche dei personaggi più significativi del ventesimo secolo. Ha davvero lasciato la sua impronta sulla politica internazionale.

Ma i grandi leader sono davvero così decisivi nel cambiare il corso degli eventi? Quest’interrogativo suscita giustamente l’attenzione di storici, filosofi e politologi da duemila anni. Insomma, cos’è che cambia davvero il corso della storia?

È una coincidenza interessante che la principale confutazione della teoria di Carlyle venne da un altro vittoriano come lui, cioè da un filosofo della storia e studioso di economia politica: Karl Marx. Marx, nell’incipit del suo classico Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, scrisse una frase famosa: “Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione”.

Una frase sorprendente, in cui Marx non solo coglie il modo di funzionare dell’agire umano, ma ci ricorda che perfino gli uomini più potenti devono fare i conti con i limiti temporali e spaziali, geografici e storici. E questo fu vero anche per Churchill. Nonostante tutti i suoi poteri, non riuscì a impedire che il Blitzkrieg, la guerra lampo nazista, dilagasse in tutta Europa. Non riuscì a fermare la conquista giapponese dei territori britannici in Estremo oriente né a bloccare l’Armata rossa in Europa orientale.

I risultati ottenuti da Churchill in tempo di guerra furono impressionanti. Ma non poté cambiare il corso generale della storia e dovette condurre la sua politica entro i limiti che aveva ereditato, come diceva Marx. Negli anni quaranta erano già in corso fenomeni storici profondi, come l’ascesa dell’Asia e l’indebolimento dell’Europa, che cominciavano a cambiare il paesaggio geopolitico del pianeta.

Che significa questo per la politica internazionale di oggi? Per me significa che dobbiamo abbandonare la nostra patetica ossessione per i grandi leader e ridicolizzare il sensazionalismo dei talk show. Certo che i mezzi d’informazione hanno il dovere di raccontare i fatti, ma devono anche mettere le cose nel giusto contesto.

La coalizione tra conservatori e liberali in Gran Bretagna è l’alba di una nuova epoca per il paese? Ne dubito, visto che i britannici sono alle prese con un enorme deficit di bilancio, hanno caricato le forze armate di troppi impegni e devono risolvere la questione dell’immigrazione e il loro rapporto difficile con l’Europa. L’avvento di Putin in Russia ha cambiato davvero le cose?

Be’, certo Putin sa come mettere in galera i banchieri, fregare le industrie energetiche occidentali e rendere più aggressive le forze armate. Ma perfino il suo governo autoritario non può fare molto per affrontare l’alcolismo di massa, la crisi demografica, le rivendicazioni delle minoranze e il clima impossibile del suo paese.

Queste conclusioni ci portano a fare qualche considerazione sull’amministrazione Obama. Fin dall’inizio ha cercato essenzialmente di limitare i danni. E cosa avrebbe potuto fare? Obama è entrato in carica quando il sistema bancario statunitense e la finanza internazionale sembravano sull’orlo della catastrofe.

Ha ereditato una guerra impossibile da vincere in Afghanistan. Ha ereditato dei disastri ambientali, non provocati ma sicuramente aggravati da leggi inadeguate. Governa un paese in cui il tessuto sociale è disgregato e non ci sono i soldi per ricomporlo. La squadra di Obama è entrata in questa difficile arena con aspettative e promesse esagerate. I poteri del presidente e del congresso degli Stati Uniti (se decide di collaborare con la Casa Bianca) sono enormi, e con il buonsenso possono fare molto per migliorare la situazione interna e internazionale. Ma tutti questi poteri hanno dei limiti a cui i capi della nazione devono inchinarsi.

Chissà, forse verrà il giorno in cui perfino i leader statunitensi più ripiegati su se stessi leggeranno il primo Marx e mediteranno sulla sua idea che gli uomini “fanno” la storia solo in circostanze già esistenti, create e trasmesse dal passato. Forse allora saranno meno disinvolti quando prometteranno di cambiare il mondo appena saranno eletti.

*Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 849, 4 giugno 2010*

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