Il 6 marzo il “non vincitore” delle elezioni Pier Luigi Bersani si è presentato davanti ai quadri del Partito democratico (Pd) per avere il loro appoggio nel suo progetto di governo di minoranza. Secondo lui il Pd, che alla camera dei deputati ha la maggioranza, è la sola forza capace di far uscire il paese dalla situazione di blocco istituzionale in cui si trova. “Siamo pronti, se ce lo chiedono, a proporre un governo di cambiamento fondato su una piattaforma programmatica”, ha detto Bersani. “Il suo obiettivo sarà quello di permettere al parlamento di andare avanti”.
La via è stretta e con profondi precipizi da un lato e dall’altro. Escludendo l’ipotesi di formare una coalizione, “né credibile né fattibile”, con la destra “riberlusconizzata” dopo la rimonta del Cavaliere, il segretario del Pd ritiene che ci sia solo una soluzione possibile: continuare a tendere la mano al Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, che grazie ai suoi 163 eletti (tra cui 54 senatori indispensabili alla stabilità di qualunque governo), gli ha già sbattuto la porta in faccia.
Ma qual è la tattica del leader della coalizione di sinistra? Piegare Grillo sotto la pressione della sua base, farlo entrare nel gioco dei negoziati in nome della sua “responsabilità” dopo che l’M5s ha ottenuto il 25 per cento dei voti. “Grillo deve dire che cosa vuole fare per l’Italia con i suoi voti”, ha esclamato Bersani. Qual è invece la tattica del “non capo” del “non partito”? Rifiutare, spingere il Pd a cercare un’alleanza fragile con la destra e avere la maggioranza assoluta dopo nuove e inevitabili elezioni.
Otto proposte sono sul tavolo nel settore dell’economia verde, dell’istruzione, della lotta all’evasione fiscale, della giustizia (tra cui una legge particolarmente attesa sul conflitto di interessi) e così via. Bersani propone a Grillo, che ha fatto campagna contro l’austerità di “Rigor Montis (il soprannome dato dall’ex comico genovese a Mario Monti), per uscire dalla “gabbia del rigore” e battersi in favore di una “correzione delle politiche europee di stabilità”. Inoltre propone una riduzione del costo della vita politica (riduzione dei parlamentari, delle loro retribuzioni e vantaggi, soppressione delle province).
Ma viene da chiedersi: perché non lo ha fatto prima, per esempio durante la campagna elettorale, mentre invece la coalizione di sinistra è sembrata accontentarsi di gestire il confortevole vantaggio che le davano i sondaggi? Tutte le proposte erano già nel nostro programma, ha voluto sottolineare Bersani, per far capire bene che non stava facendo alcuna concessione all’M5s. Ma per il leader della sinistra non è più il momento delle domande. La sua strategia di apertura all’M5s, anche se sembra poco realistica, è l’unica carta che gli rimane. Le altre saranno giocate da qualcun altro.
Molti nel partito trovano che Bersani abbia fatto troppo poco per contrastare Grillo. Come Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze e sfortunato sfidante alle primarie del Pd nel dicembre del 2012. Per lui il partito dovrebbe “sfidare Grillo sul terreno dell’innovazione, anziché rimanere al suo traino”. Così propone per esempio di sopprimere il finanziamento pubblico della politica (i rimborsi elettorali), una cosa che Bersani, a capo di un partito che conta numerosi politici a tempo pieno, ha concesso obtorto collo. Renzi ha lasciato la riunione senza fare alcun commento, come se non volesse che il suo nome fosse associato a questa strategia.
A sua volta anche Massimo D’Alema, che Bersani era riuscito a isolare nel corso della sua campagna, ha fatto sentire la sua voce: “La destra esiste e mi dispiace che in un momento così drammatico non sia possibile in questo paese fare prova di unità nazionale”. La direzione del partito ha dato il suo appoggio a Bersani per continuare nella sua strategia con una tale unanimità da essere quasi sospetta.
Traduzione di Andrea De Ritis.
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