1. Banda Jorona, La regina der Pigneto

Quelli si sono alzati prestissimo e caricano le bancarelle per il mercato; lei li rimira dal tavolino del localino trend: tanto le spese le paga papà. Gentrification tra Casilina e Prenestina, sonorità multiculti da taverna dal souvlaki facile (suonano gli Evì Evan, capiscuola del rebetiko romano). È un episodio di Mettece sopra, divertente album di questa banda (tre femmine e un maschio) che ricama su Gabriella Ferri come i Pogues graffiavano gli acquerelli dei Dubliners. Nell’unica serenata come si deve canta Giorgio Tirabassi, quello che sta sempre in tv.

2. Eva, 6

Erano altri anni, altri locali, altri medicinali; i Prozac+ erano quel trip un po’ Pop Mart, che in Italia nel 1998 ci aprivano il tour più decadente degli U2. Ma poi lei, Eva Poles, ha fatto cose coi Rezophonic, è rimasta nel giro dj, ha ripreso il conservatorio e il punk. Ma si riaffaccia e debutta in solitaria con un album, Duramadre. Riportando cose da anni novanta, parti vocali scritte bene, i synth che dialogano con le chitarre, una voce vagamente onirica ma bene educata, una malinconia che come certe intemperie di Annie Lennox piove tiepida e avvolgente.

3. Concha Buika, Mi niña Lola

Bravissima, pur con la sua carita de pena, da Stefano Bollani l’altra sera (a sostenere con un cavallo di battaglia ormai tradizionale di quel suo cante jondo afrojazz le cause della musica cara al padrone di casa). Spagnola cioè maiorchina con radici nella Guinea Equatoriale, ora a Miami, mette un mondo di echi nel suo modo di far flamenco e world chanson. Ad essersela persa fin qui; recuperare En mi piel, la sua doppia nera e tosta antologia; col titolo che vale anche un souvenir d’Almodóvar: La piel que habito, nella cui colonna sonora lei brillava.

Internazionale, numero 947, 4 maggio 2012

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