11 aprile 2018 15:03

1. Motta, Vivere o morire
“Otto sigarette al giorno, quelle giuste. C’è chi lo fa, e poi fa finta di star bene”. Quando una canzone ti parla meglio dei messaggi sui pacchetti di sigarette, drizzi le orecchie. Con questa, che dà il titolo al suo secondo album, Motta si conferma ammaestratore di lobi, l’aria da Richard Ashcroft italico. Se ne frega se non cambiano gli accordi, valorizza il suo passato da turnista e l’entourage solido (Francesco Pacifico, Taketo Gohara). Per tirar fuori la sua personalità negli studi di registrazione di New York. Da servire con smorfia nonchalant.

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2. Nakhane, Star red
Sembra una creatura fashion, fatta per riviste come Fantastic Man, con quelle mode maschili reperibili solo a certe ore a Tokyo o a Londra. E invece il cantautore calvo viene da Johannesburg. E dalla sua voce traspare una storia di sofferenza che contraddice l’etichetta, così spesso paradossale, di “gay”. Comunque You will not die, il suo album di soul rarefatto, e diviso tra una club music sublimata e degli slanci di anima che ricordano Sam Cooke, o un certo Prince, o il primo Terence Trent D’Arby, è di quelli che conducono verso il calore e la speranza.

3. Eleonora Bordonaro, Disidiru mangiari jancu pani
Grassroots blues siculo, cicaleccio ancestrale di scacciapensieri a mo’ di loop techno, o i tamburelli sordi e bassi di Alfio Antico a fare da drum machine senza ausilio di elettronica (nel proto-rap Tri tri tri). Il linguaggio ricco, i luoghi e umori della Trinacria e una prospettiva di fimmini forti. A colpire nell’album Cuttuni e lamé è la varietà di registri: dal recupero di dialetti antichi come quello di San Fratello alle ballate malpanciste in stile Tom Waits. Tutto però è dominato da questa donna che canta storie con cura.

Questa rubrica è stata pubblicata il 6 aprile 2018 a pagina 84 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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