07 maggio 2019 16:34

1. Ex-Otago, Amore che vieni, amore che vai
Arieccolo, Faber nostrum. Fabrizio De André reinterpretato nella raccolta così titolata da un trenino indie in partenza da Genova Sant’Ilario: da Motta a Vasco Brondi. Non ci sono stravolgimenti (tranne Willie Peyote che col Bombarolo la butta sulla cover rap, partendo per sue tangenti), e come rappresentanti del genovesato ci sono solo gli Ex-Otago. Che neanche scelgono Crêuza de mä, ma un pezzo del 1966. La dolceamarezza dell’originale resta fuori portata, ma il trenino si spera raggiunga nuove generazioni.

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2. Giua, Argilla (feat. Jacques Morelenbaum)
Inopinatamente assente dalle compilazie trendy intorno al Faber, lei che ne è stata interprete oltre che conterranea, la cantante di Rapallo rispunta con l’album Piovesse così, una riprova della sua bravura. Sconta forse un’eccessiva generosità, una propensione a cimentarsi con ogni registro: dal singolo Feng shui, canzone-cabaret in cui è affiancata da Carla Signoris, a slanci pink-floydiani. Non che l’ambizione sia veleno ma le è più congeniale il violoncello brasileiro di Morelenbaum che la affianca in cinque dei dodici pezzi.

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3. Al Raseef, Longa Şehnaz
Un vocìo dai mercati, e sembra di tornare tra i pusher di gianchetti e acciughe su cui si chiudeva Creuza de mä del Faber. Però qui, nell’album Mina Zena, uscito l’anno scorso, accanto al dialetto genovese s’intrecciano voci da suq arabo. Ed è un modo efficace di continuare l’inseguimento di sonorità panmediterranee di cui De André fu pioniere. La band è nata a Ramallah e cresciuta all’ombra del conservatorio di Genova, formata da quattro palestinesi, un siriano e due liguri. Arab brass, strumentali a perdifiato, da festa e da ballo, al pesto e al cumino.

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Questo articolo è uscito sul numero 1305 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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