Pochi personaggi cinematografici, almeno per me, riescono a rappresentare il concetto di discontinuità come Tarzan. Per più motivi. Intanto perché è stato interpretato da un esercito di attori. Appena si parla di Tarzan viene citato sempre Johnny Weissmuller, il campione di nuoto che ha vestito il succinto costumino dell’uomo scimmia in una decina di film tra la fine degli anni trenta e la fine degli anni quaranta. Eppure almeno altri due Tarzan, Lex Barker e Gordon Scott, forse anche più di Weissmuller, hanno popolato quegli avventurosi pomeriggi spesi in cinemini parrocchiali, dove, preso per sfinimento, l’adulto di turno ci accompagnava a vedere l’ennesima avventura dell’eroe partorito dalla penna di Edgar Rice Burroughs.

Ma nella mia mente Barker, Scott e Weissmuller erano tutti sostanzialmente Weissmuller, o meglio, erano tutti Tarzan. Poco importava se al suo fianco ci fossero la scimmia di ordinanza o la bionda di ordinanza o tutte e due. Le uniche due cose importanti per me erano la presenza del pugnale ma, soprattutto, Tarzan non doveva assolutamente portare scarpe o surrogati di scarpe. Credo che fossero i film con Barker quelli in cui Tarzan volava da una liana all’altra con delle specie di pantofoline ai piedi. Quello poteva davvero rovinarmi il pomeriggio. Per fortuna Christopher Lambert in Greystoke, forse finora il miglior film sul signore delle scimmie, non portava ciabatte. Non le portava neanche Miles O’Keeffe, in Tarzan, l’uomo scimmia del 1981, ma quello più che un film sull’uomo scimmia è un film sul topless di Bo Derek.

The legend of Tarzan

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Neanche Alexander Skarsgård nel nuovissimo The legend of Tarzan, di David Yates, porta le pantofole. Peccato che il film sia piuttosto noioso (ma è meglio la natura selvaggia o il mondo civilizzato?), spezzettato (i flashback sembrano un album di famiglia), con una trama inutilmente complicata (potevano intitolarlo “Tarzan contro il Belgio”) e soprattutto quasi imbarazzante per come raffigura l’Africa e i suoi abitanti: indigeni (ci mancavano i cannibali con il pentolone), colonizzatori (soprattutto quelli “buoni”, con Jane in testa – una sola parola: nascondino), gorilla (pompatissimi e incazzosi ma meno minacciosi di Cesar e soci) e grandi felini (che sembrano usciti dalla solita pubblicità dei gelati). Skarsgård fisicamente è plausibile (anche se poco selvatico, almeno non porta le ciabatte) ma ha sempre questo sguardo depresso e un po’ malinconico, sia quando sta a Londra sia quando sta in Congo. Lui e Margot Robbie sono molto languidi, un po’ troppo Harmony Jungle. Nuovo ruolo da cattivo per Christoph Waltz che però, come per il Blowfeld di Spectre, non dà il meglio di sé. Nel cast anche Samuel Jackson e Djimon Hounsou (immancabile in pellicole ambientate in Africa).

Cell

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Ma è estate, quindi ci sarà almeno un buon horror in alternativa. Eh no, perché Cell di Tod Williams, con John Cusack e Samuel Jackson, tratto da un racconto di Stephen King, non è un buon film. E neanche molto horror. Un bel giorno i cellulari di tutto il mondo inviano un segnale misterioso che fa impazzire le persone. Provoca un effetto simile a quello del virus di 28 giorni dopo. Dunque assistiamo a scene di ordinaria follia, ma niente che non si sia già visto in altri film. Naturalmente Cusack (ancora una volta nel ruolo del separato a cui manca tanto il figlioletto) e Jackson (anche lui con il pilota automatico) sono immuni. Cusack ha una missione: ritrovare suo figlio, sperando che sia ancora sano di mente. Se Cell fosse una vera boiata allora forse gli si potrebbe dare una chance, perché a volte le boiate meritano. Ma questo film è semplicemente inutile, già visto, tempo perso.

Bastille day

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In uscita anche Bastille day e Una spia e mezzo. In tutti e due i film un agente della Cia (Idris Elba nel primo, Dwayne “The Rock” Johnson nel secondo) deve fare forzatamente coppia con un civile (Richard Madden nel primo, Kevin Hart nel secondo). Uno britannico (ambientato in Francia), l’altro americano. Uno più serio, l’altro più faceto. A voi la scelta.

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