07 giugno 2017 12:56

È forte la tentazione di riprendere il titolo usato da John Reed per raccontare nel 1917 la rivoluzione d’ottobre in Russia, I dieci giorni che sconvolsero il mondo. Dieci giorni è appunto il tempo nel quale Donald Trump è riuscito a sconvolgere il mondo come lo conosciamo.

Dal momento dell’ingresso alla Casa Bianca del miliardario, il 20 gennaio scorso, i commenti oscillano, anche negli Stati Uniti, tra la speranza di vedere questo singolare presidente aderire progressivamente ai canoni del Partito repubblicano, grazie all’influenza del suo entourage, e la disperazione di quanti temono i gravi danni che una presidenza quantomeno disfunzionale, per non dire dogmatica, può infliggere a un mondo in confusione e, più nello specifico, all’influenza statunitense.

Lo scorso marzo Thomas Friedman, opinionista del New York Times, ha lanciato un appello agli “adulti” del governo statunitense, ovvero i generali che occupano posti chiave e il segretario di stato Rex Tillerson, ex amministratore delegato del gigante petrolifero ExxonMobil, perché arginassero le pericolose incoerenze del presidente.

I sauditi, l’Europa e la fine del multilateralismo
E sembrava che ci stessero riuscendo almeno su questioni importanti, come per esempio la Nato, passata da “obsoleta” a “nient’affatto obsoleta” nelle parole di Trump. Ma nell’arco di pochi giorni la situazione è tornata velocemente al punto di partenza: il viaggio appena effettuato da Donald Trump in Medio Oriente e in Europa, seguito dalla sua decisione di far uscire gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul cambiamento climatico, hanno di nuovo rimesso in discussione le fondamenta della politica internazionale.

Il presidente statunitense ha deciso di allinearsi pienamente all’interpretazione saudita del mondo, in particolare la sua demonizzazione dell’Iran sciita, che contrasta con l’atteggiamento di prudente apertura di Barack Obama. Questa lettura tuttavia non è unanime, come mostra la crisi appena aperta tra Riyadh e i suoi alleati da un lato e il Qatar dall’altro. L’Arabia Saudita non priva di responsabilità nell’ascesa del radicalismo islamista, con la diffusione a colpi di dollari, nei tre ultimi decenni, del wahhabismo, la dottrina integralista che è alla basa della creazione del regno della dinastia dei Saud.

Il presidente degli Stati Uniti ha notevolmente indebolito il legame tra il suo paese e gli alleati europei, che aveva costituito il pilastro della politica estera statunitense dalla fine della seconda guerra mondiale, rifiutando di ribadire, nel suo discorso alla Nato di Bruxelles, il suo sostegno all’articolo 5 del patto atlantico, che prevede la solidarietà automatica degli stati membri in caso di attacco contro uno di essi. Ironia della sorte, gli unici a invocare tale articolo in sessant’anni di storia dell’alleanza sono stati, dopo l’11 settembre 2001, proprio gli Stati Uniti.

Il presidente statunitense ha inflitto un duro colpo al multilateralismo, il sistema di relazioni tra stati che permette di regolare o evitare conflitti e di risolvere problemi, decidendo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima, in nome di un manifesto egoismo del suo paese. Così facendo ha indebolito le ambizioni di leadership che gli Stati Uniti esercitano, in varie parti del mondo, dai tempi della seconda guerra mondiale, in particolare in Asia e in Europa, due regioni chiave in un mondo multipolare caotico.

Altri rapporti, altre alleanze
Questa successione di gravi traumi avrà serie conseguenze, in primis per l’autorità degli Stati Uniti, che resteranno poco credibili finché il suo presidente, minacciato da un moltitudine d’inchieste interne e da una possibile messa in stato d’accusa, continuerà, con il suo atteggiamento, a indebolire le fondamenta dell’influenza degli Stati Uniti nel mondo. Ultimo e significativo aneddoto è il tweet con il quale Donald Trump critica, estrapolando una sua frase dal contesto, il sindaco di Londra Sadiq Kahn dopo l’ultimo attentato che ha colpito la capitale britannica.

Anche prima di questo passo falso, che non è piaciuto nel Regno Unito, dove ci si sarebbe aspettati maggiore solidarietà da parte del paese della “relazione speciale” con Londra, la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva già tratto le conclusioni dei suoi incontri con Donald Trump a Washington, Bruxelles e Taormina: “Non possiamo praticamente più fidarci l’uno dell’altro”, ha dichiarato a fine maggio durante un comizio elettorale, una frase che ha fatto suonare il campanello d’allarme a Washington.

Angela Merkel ha aggiunto che “noi europei dobbiamo prendere in mano il nostro destino. Dobbiamo batterci per la nostra sorte”.

È stata la posizione della Cina a rivelarsi più spettacolare sulla questione del clima

Senza dirlo così esplicitamente, gli alleati degli Stati Uniti in Asia si pongono le stesse domande, a Tokyo, Seoul o Singapore, dove la protezione degli statunitensi di fronte a una Cina sospettata di ambizioni egemoniche regionali non è più considerata un fatto immutabile. Questo cambiamento degli equilibri strategici avrà serie conseguenze. Se l’Europa, l’Asia o il Medio Oriente subiranno dei contraccolpi per le prese di posizione del presidente degli Stati Uniti, emergeranno altri rapporti di forza, altre alleanze, altri temi fondamentali.

Lo abbiamo visto nel caso della decisione di Donald Trump sul clima. Se gli europei, come prevedibile, hanno denunciato questa scelta, è stata la posizione della Cina a rivelarsi più spettacolare, con Pechino che si è posta a guardiano dell’ordine internazionale nonostante fosse accusata, fino a poco tempo fa, di averlo affossato, come in occasione del fallimento dei negoziati sul clima di Copenhagen. Allo stesso modo l’India, l’altro gigante “emergente” asiatico, a sua volta un paese fortemente inquinante e a crescita sostenuta, ha chiaramente espresso la sua intenzione di rispettare l’accordo di Parigi o addirittura di spingersi oltre.

Una responsabilità storica
È chiaramente in Europa che la sfida è più chiara. Lo abbiamo detto più volte dopo la vittoria di Donald Trump: l’elezione di questo presidente ostile, all’indomani della Brexit, mette lo zoccolo duro dell’Unione europea, Francia e Germania in particolare, di fronte a una responsabilità storica.

L’“allineamento dei pianeti” tra Angela Merkel, in buona posizione per essere rieletta a settembre, e un presidente apertamente filoeuropeo come Emmanuel Macron in Francia offre la migliore opportunità da molto tempo a questa parte per tentare un rilancio dell’Europa, al quale avevamo finito per non credere più.

Ma anche se gli europei riusciranno a ridare vita a un progetto collettivo che ha appena attraversato un decennio disastroso, quasi letale, servirà del tempo per emanciparsi dalla dipendenza psicologica e reale nei confronti degli Stati Uniti, il cui ruolo guida, anche quando veniva contestato dal generale de Gaulle negli anni sessanta o da Jacques Chirac durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, continuava a far parte dei pilastri dell’ordine mondiale.

Se vogliamo considerare Trump un incidente della storia, forse quello degli Stati Uniti è un indebolimento passeggero. Ma potrebbe anche annunciare un mondo nuovo, dagli equilibri rinnovati.

È sicuramente troppo presto per conoscere l’impatto a medio e lungo termine della presidenza di Donald Trump. Ma possiamo stare certi di aver vissuto, nel periodo tra il maggio e il giugno 2017, “dieci giorni che sconvolsero il mondo”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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