20 aprile 2018 15:57

Ammettiamolo: siamo rimasti tutti sorpresi dallo spettacolare annuncio di un possibile incontro tra Donald Trump e Kim Jong-un. E ancora di più dalla rivelazione della missione segreta di Mike Pompeo, direttore della Cia e presto segretario di stato, arrivato a Pyongyang per incontrare il leader nordcoreano, senza neppure un annuncio da parte di Donald Trump su Twitter.

Questa svolta diplomatica, che sostituisce la gara di “bottoni rossi” alla quale si dedicavano fino a poco tempo fa il leader statunitense e quello nordcoreano, è evidentemente una buona notizia. Anche se, allo stadio attuale, genera più domande che risposte. Ma per una volta che la sorpresa, da parte di Trump, è positiva e non negativa, occorre essere sportivi e riconoscergli la capacità di saper cogliere le opportunità quando queste si presentano.

Questa felice sorpresa sembra però contraddire l’ossessione del presidente degli Stati Uniti per l’affossamento dell’accordo di denuclearizzazione firmato nel 2015 dal suo predecessore Barack Obama con l’Iran. Donald Trump deve decidere il 12 maggio se prolungare o meno i termini di quest’accordo, con una decisione unilaterale degli Stati Uniti, quando invece l’accordo era stato negoziato e firmato da altri paesi tra i quali la Francia, la Russia e la Cina.

Evitare un doppio fallimento
La diplomazia “trumpiana” è tale che Washington finirà per dialogare con la Corea del Nord per raggiungere un accordo di denuclearizzazione, sforzandosi al contempo di smontare quello raggiunto con l’Iran. Un fatto incomprensibile, incoerente, e soprattutto una contraddizione che potrebbe generare un doppio fallimento carico di conseguenze, tanto nella penisola coreana quanto in Medio Oriente.

Si può davvero stabilire un parallelo tra le due situazioni? Naturalmente sì, anche se con le cautele che sono d’obbligo per ogni paragone. Dal punto di vista di Washington c’è soprattutto l’appartenenza dei due paesi al vecchio “asse del male” dell’epoca di George W. Bush. Come ricorderete quest’espressione è apparsa nel 2002, e prendeva allora di mira la Corea del Nord, l’Iran e l’Iraq di Saddam Hussein (invaso poi l’anno seguente, con il conseguente rovesciamento del dittatore).

Dei tre paesi ne restano due, con i quali gli Stati Uniti hanno delle relazioni particolarmente conflittuali.

  • Con la Corea del Nord permane il ricordo della guerra di Corea (1950-1953), mai conclusa da un trattato di pace, e un clima di guerra fredda alternato a negoziati mai portati a termine. Guidata dal nipote del fondatore di questa repubblica popolare autarchica, la Corea del Nord coltiva l’ostilità, assolutamente reciproca, nei confronti degli Stati Uniti.
  • Le cose non vanno meglio con l’Iran: gli Stati Uniti hanno rovesciato nel 1953 il primo ministro progressista Mohammad Mossadegh, rimettendo in sella lo scià iraniano, a sua volta cacciato nel 1979 dalla rivoluzione islamica di Khomeini. Da allora gli Stati Uniti restano per l’Iran il “grande Satana” mentre per Washington è l’Iran dei mullah a essere l’incarnazione del male.

Sia Teheran sia Pyongyang hanno sviluppato da vari anni un programma militare nucleare segreto, creando tensioni con i “guardiani” della non proliferazione, nonostante Israele, India e Pakistan siano diventati a loro volta delle potenze dotate di quest’arma suprema senza alcun trattato e in maniera tacita.

I negoziati cominciati negli anni novanta, tanto con la Corea del Nord che con l’Iran, hanno avuto esiti diversi. Quelli portati avanti con Pyongyang non hanno mai avuto fortuna, e la Corea del Nord dispone oggi di armi nucleari già testate più volte. Il paese sta sviluppando a grande velocità un programma balistico che le permetterebbe di lanciare le sue armi su un obiettivo distante varie centinaia o addirittura migliaia di chilometri (come, rispettivamente, il Giappone e gli Stati Uniti).

L’Iran ha invece finito per siglare nel 2015 un trattato internazionale prima di essere arrivato a produrre e sperimentare armi nucleari. Questo accordo impedisce all’Iran, in maniera comprovata, di sviluppare la sua capacità nucleare, e nessuno ha finora sostenuto che Teheran non abbia rispettato la sua parte d’impegni.

Il sospettosissimo leader nordcoreano rinuncerà alla sua presunta assicurazione sulla vita?

È qui che emerge la contraddizione attuale. Come convincere la Corea del Nord a stringere un accordo di denuclearizzazione ancor più ambizioso di quello concluso con l’Iran, visto che si tratta di rinunciare a un’arma già esistente e non solo a un programma di ricerche, quando d’altro canto viene denunciato quello siglato con l’Iran?

Come convincere Kim Jong-un, visceralmente diffidente nei confronti degli Stati Uniti, che un futuro accordo sarà rispettato, se un’alternanza politica a Washington può rimettere in discussione la parola data dal paese?

Il sospettosissimo leader nordcoreano rinuncerà a quella che è sempre stata presentata come la sua “assicurazione sulla vita” in cambio di un trattato che può essere stracciato, rischiando di trovarsi nella posizione di Muammar Gheddafi, rovesciato dopo aver rinunciato a qualsiasi programma di armi di distruzione di massa?

Alleanze affidabili
Questi dubbi sono troppo “razionali” per l’amministrazione Trump, stretta tra le sue pulsioni ideologiche, le promesse fatte in campagna elettorale (quando Trump aveva fatto del “pessimo accordo” con l’Iran il simbolo del suo odio per Barack Obama) e l’istinto politico del presidente?

Sono molte le argomentazioni da usare nei confronti dell’amministrazione Trump per quanti vogliono salvare l’accordo con l’Iran, per non aprire un ennesimo dossier scottante in una regione in preda a tensioni e al rischio di un conflitto generalizzato, ma anche garantire alcune possibilità di successo alle trattative con la Corea del Nord.

Donald Trump riceverà a Washington, nell’ordine, Emmanuel Macron e Angela Merkel, leader di due paesi che hanno firmato l’accordo con l’Iran, e che sperano ancora di salvarlo. Il presidente francese, in particolare, oltre ad avere un rapporto personale con il suo collega statunitense, arriva a Washington forte della partecipazione militare francese al fianco degli statunitensi in Siria.

Robert Malley, l’ex consigliere di Barack Obama per il Medio Oriente, oggi presidente dell’International crisis group, ha affermato la scorsa settimana a Parigi che la missione militare a tre (Stati Uniti, Francia e Regno Unito) contro gli impianti chimici siriani poteva avere come risultato quello di dare un po’ di peso alle parole degli alleati europei, dopo questa “prova del fuoco”. Il che non è necessariamente sufficiente a rimettere in discussione la posizione contraria all’accordo iraniano, a suo avviso intrinsecamente parte del dna politico di Donald Trump.

La fine dell’accordo minaccerebbe in maniera durevole la diplomazia come strumento di pace e di sicurezza, scrivono i parlamentari europei

A Parigi, in ogni caso, si ammette senza problemi che, nonostante l’operazione siriana avesse come primo obiettivo la necessità di reagire all’attacco chimico di Duma, anche l’idea di apparire come un alleato affidabile e capace di agire sul terreno era uno degli scopi prefissati. Nella speranza, forse vana, di accrescere la propria influenza a Washington.

Per l’Europa si pone infatti la domanda di quale posizione assumere in caso di mancata certificazione dell’accordo iraniano da parte del presidente degli Stati Uniti il prossimo 12 maggio. L’Europa, e in particolare Parigi, Berlino e Londra, avrà la capacità di salvare l’accordo e impedire all’Iran di riavviare subito dopo il suo programma nucleare, come già minacciano di fare i “falchi” di Teheran?

In Europa la portata della posta in gioco è chiara: circa trecento parlamentari francesi, tedeschi e britannici di quasi tutte le parti politiche hanno firmato giovedì un appello ai loro colleghi del congresso degli Stati Uniti affinché sostengano l’accordo con l’Iran. “La fine dell’accordo minaccerebbe in maniera durevole la nostra credibilità di partner internazionali e, più generalmente, la diplomazia come strumento di pace e di sicurezza”, scrivono. Una missione parlamentare mista potrebbe recarsi a Washington prima del 12 maggio al fine di sostenere questo messaggio presso il congresso degli Stati Uniti.

Alla fine, più che l’Europa, a convincere Donald Trump a non distruggere l’unico risultato di una diplomazia inclusiva (alle trattative hanno partecipato anche la Russia e la Cina) potrebbe essere la prospettiva di ottenere un successo con Kim Jong-un.

Ammesso che il presidente degli Stati Uniti si renda conto che quanto si appresta a fare in Iran avrà delle conseguenze negative sulla penisola coreana, Trump il mago degli affari, si trova dunque di fronte a un dilemma quasi senza vie d’uscita.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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