27 marzo 2018 10:20

È partito il conto alla rovescia per la scelta più importante che attende Donald Trump: salvare o condannare a morte l’accordo sul nucleare con l’Iran. Il 12 maggio il presidente statunitense dovrà decidere se “certificare” nuovamente il testo sulla denuclearizzazione concordato con Teheran, come previsto dalla legge americana.

Eppure l’accordo non riguarda soltanto gli Stati Uniti e l’Iran ma coinvolge anche europei, russi, cinesi ed è stato inserito in una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il mondo funziona così. Oggi il capo dell’esecutivo statunitense ha il diritto di vita e di morte su questo documento fondamentale.

A prima vista ci sono poche speranze che Trump prolunghi l’esistenza del trattato che ha più volte definito, fin dalla campagna elettorale, “il peggiore mai negoziato dagli Stati Uniti”. Il primo motivo è semplicemente che l’accordo è stato concluso dal suo predecessore, Barack Obama, di cui Trump vuole a tutti i costi cancellare l’eredità. Ma ci sono altre ragioni.

Emmanuel Macron deve convincere Trump a tenere in vita l’accordo con l’Iran

Se le ultime nomine dell’amministrazione Trump (nell’ambito del vasto ricambio operato in un anno di mandato) possono essere considerate un indicatore di tendenza, c’è poco da essere ottimisti. Mike Pompeo, ex capo della Cia chiamato a sostituire il segretario di stato Rex Tillerson (se il congresso approverà la sua nomina) e soprattutto John Bolton, super falco scelto come consulente per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, sono due oppositori di lunga data di qualsiasi accordo con l’Iran.

In particolare Bolton, l’uomo che rischia seriamente di essere l’ultimo a poter parlare a Donald Trump prima del 12 maggio e dunque di avere la maggiore influenza sul presidente, è conosciuto da tempo per la sua intenzione di bombardare l’Iran.

Arrivati a poco più di un mese dalla data cruciale, i tentativi di influenzare la decisione del capo continueranno a moltiplicarsi. Uno dei più complicati sarà sicuramente quello di Emmanuel Macron, che a fine aprile sarà il primo leader straniero a incontrarsi con Trump negli Stati Uniti, un “onore” che riflette il misterioso rapporto intimo tra il presidente americano e il suo giovane omologo francese.

Sul New York Times, il giornalista Roger Cohen sottolinea che se questo rapporto personale ha un senso, Macron deve convincere Trump a tenere in vita l’accordo con l’Iran. Altrimenti non sarà servito a niente.

Cohen ha assolutamente ragione, anche se la minaccia del terrorismo jihadista e gli equilibri di un mondo senza un governo coerente impongono alla Francia di conservare un buon rapporto con gli Stati Uniti, a prescindere dal malfunzionamento dell’amministrazione americana.

La seduzione di Macron
Poco dopo la sua elezione, Macron ha scelto di collaborare con Trump, diversamente da Angela Merkel che ha sviluppato un rapporto conflittuale con il presidente americano. Dalla stretta di mano “virile” del debutto alla parata del 14 luglio per l’anniversario della presa della Bastiglia – che ha incantato Trump, tanto che il presidente statunitense ha chiesto di fare lo stesso a Washington – Macron ha giocato la carta della seduzione, e finora ha funzionato.

Ha funzionato perché i due leader si parlano regolarmente al telefono e a quanto pare Macron è il capo di stato più consultato da Trump. Eppure, i due appaiono divisi in tutto: età (compresa, al rovescio, quella delle rispettive mogli), formazione intellettuale e professionale, visione del mondo. L’unico punto che hanno in comune è quello di essere entrambi outsider del sistema politico, arrivati al vertice della piramide quasi per effrazione e comunque approfittando di un vento di rivolta contro il vecchio establishment.

Ma quali sono gli effetti concreti di questo “rapporto” personale? Come sottolinea giustamente Cohen, è arrivato il momento che questa relazione partorisca qualcosa di concreto. La vicenda dell’accordo con l’Iran è sicuramente il tema su cui può fare di più la differenza.

Il presidente francese sarà a Washington pochi giorni prima della fatidica data del 12 maggio. La questione sarà sicuramente in cima alla sua agenda, ma il problema è che Macron non avrà molti argomenti da far valere per convincere Trump, se non il rispetto da parte dell’Iran della sua parte del deal.

La Francia ha cercato di “vendere” all’Iran l’idea di aprire una trattativa sui due punti avanzati dagli americani che però non sono compresi nell’accordo: le capacità balistiche iraniane e l’attività iraniana in Medio Oriente (Iraq, Siria, Yemen, Libano).

Con John Bolton alla Casa Bianca, il campo dei nemici dell’accordo si è nettamente rafforzato

La recente visita a Teheran del ministro degli esteri francese Jean-Yves Le Drian non è stata un successo e non ha permesso di creare le condizioni per un viaggio ufficiale di Macron in Iran, ipotizzato nei mesi precedenti. Gli iraniani non hanno apprezzato il fatto che la Francia a tratti si presenti come portavoce delle richieste americane, anche se questo potrebbe servire a convincere Trump a salvare l’accordo.

Con John Bolton alla Casa Bianca, il campo dei nemici dell’accordo si è nettamente rafforzato. Bolton, come Israele e l’Arabia Saudita, vorrebbe emarginare l’Iran o addirittura, nella fantasia paranoica e aggressiva del nuovo consulente per la sicurezza nazionale, forzare un cambio di regime a Teheran, un po’ come accaduto 15 anni fa a Baghdad, con un intervento che Bolton aveva appoggiato energicamente e che continua a difendere nonostante le disastrose conseguenze nella regione (e non solo).

Per un anno abbiamo avuto l’abitudine di credere che il carattere erratico di Trump fosse compensato dagli “adulti” del suo entourage: i tre generali ai vertici del Pentagono, della segreteria generale e del consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca oltre a Rex Tillerson, capo del dipartimento di stato. Ora due di questi “adulti”, Tillerson e il consigliere per la sicurezza (il generale H.R. McMaster) sono stati allontanati e sostituiti da falchi, mentre il segretario generale della Casa Bianca, il generale John Kelly, potrebbe presto aggiungersi all’elenco.

Resta il segretario alla difesa, il generale in pensione John Mattis, su cui poggia l’ultima speranza (un paradosso, visto che parliamo di un soldato) di evitare avventure militari rischiosissime in Iran o Corea del Nord.

L’Europa, intanto, è del tutto assente dal dibattito, con l’eccezione personale di Emmanuel Macron, che andrà a Washington senza mandato ufficiale da parte dei 28 ma comunque rappresentando un “vecchio continente” fedele al multilateralismo e che ha scelto di risolvere i problemi con metodi che non siano la guerra.

Vale a dire tutto ciò che odia John Bolton, e con lui tutti i partigiani dell’unilateralismo americano cavalcato da Donald Trump fin dalla campagna elettorale.

In una nota pubblicata dopo la nomina di Bolton, il think tank European Council on Foreign Relations sottolinea che il consigliere per la sicurezza nazionale “non capisce altro che il linguaggio della transazione brutale”, citando in particolare la questione dell’accordo con l’Iran.

È lo stesso linguaggio che dovrebbe adottare Macron a Washington se vuole che il suo rapporto con Trump serva a qualcosa, ed è l’unico modo per salvare l’accordo sul nucleare e con esso la possibilità di costruire un nuovo ambiente regionale pacifico.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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