07 ottobre 2020 10:06

La decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea calza a pennello, perché arriva proprio nel momento in cui all’interno dell’Unione è in corso un acceso dibattito sullo stato di diritto.

Il 6 ottobre l’alto tribunale, fondamentale per garantire la giustizia all’interno di quella costruzione ibrida che è ancora l’Unione, ha condannato l’Ungheria per una vicenda altamente simbolica: la chiusura nel 2017 dell’università dell’Europa centrale di Budapest, costretta a trasferirsi con grandi difficoltà a Vienna.

Mai prima di allora all’interno dell’Unione europea un’università aveva dovuto chiudere i battenti. E non si tratta di un’università qualsiasi, ma di un istituto finanziato dal miliardario liberale ungherese George Soros, bestia nera del primo ministro Viktor Orbán e dell’estrema destra.

Braccio di ferro
La Corte di giustizia ha stabilito che la modifica della legge ungherese all’origine della chiusura è “incompatibile” con le leggi europee. La condanna si aggiunge ai numerosi contenziosi tra Budapest e le istituzioni europee.

Alla base dello scontro c’è lo stato di diritto: indipendenza della giustizia, libertà di stampa, utilizzo dei fondi europei e via dicendo. La sentenza arriva in pieno braccio di ferro tra l’Europa e l’Ungheria.

A giugno, quando i 27 hanno deciso di approvare un piano di rilancio da settecento miliardi, la maggioranza dei governi voleva che il versamento dei fondi fosse condizionato al rispetto delle regole del diritto europeo. Il problema è che una decisione simile va presa all’unanimità, e l’Ungheria, che si sente presa di mira, sta bloccando tutto.

Věra Jourová, vicepresidente della Commissione che ha l’incarico specifico di garantire il rispetto “dei valori e della trasparenza”, ha lanciato un appello ai 27 invitandoli ad adottare la condizionalità degli aiuti, scongiurando in questo modo la possibilità che sorgano problemi tra i diversi stati.

Il paradosso di Orbán
Il dibattito, però, è all’impasse a causa del conflitto tra chi vorrebbe rafforzare le condizioni (il parlamento europeo) e i paesi contrari, l’Ungheria ma anche la Polonia e potenzialmente altri governi tentati dalla via “illiberale”.

Il problema è prima di tutto politico. Viktor Orbán, che paradossalmente da giovane era molto liberale e ha addirittura beneficiato di una borsa di studio concessa dalla fondazione di Soros per studiare nel Regno Unito, ha teorizzato la sua opposizione nei confronti di Bruxelles, che considera una “nuova Mosca”.

In un testo pubblicato il mese scorso, tradotto e promosso dai suoi diplomatici, Orbán ha rivendicato il suo illiberalismo, ha manifestato la speranza in una vittoria di Donald Trump alle presidenziali statunitensi e ha definito “inconciliabili” le divergenze tra i suoi valori e quelli dell’Unione, che a suo dire promuove “la grande sostituzione etnica”, l’istruzione “di genere” e “la propaganda arcobaleno”.

Ma Viktor Orbán incorre in una contraddizione enorme, perché fa parte di un club di cui non apprezza i valori ma di cui apprezza sicuramente i contributi netti al suo bilancio nazionale, tanto da non volersene assolutamente privare nemmeno se questo lo spinge a tradire i suoi valori.

Forse è finalmente arrivata l’ora della coerenza. L’Unione non può continuare a sottomettersi al ricatto di un leader che la disprezza, e quanto meno deve imporre il rispetto delle regole comuni del club.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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