12 febbraio 2021 09:35

È tradizione che i presidenti democratici comincino il loro mandato presentandosi come difensori dei diritti umani, per poi terminarlo come adepti della realpolitik. L’unico rimasto fedele agli impegni presi è stato Jimmy Carter, che tuttavia non è stato rieletto. Perfino Barack Obama, premiato con il Nobel per la pace ancora prima di aver realmente agito, è stato intrappolato nelle contraddizioni del potere, incapace di chiudere la prigione di Guantánamo e inerte davanti al moltiplicarsi dei bombardamenti realizzati a distanza con i droni.

Anche Biden ha espresso forti convinzioni in materia di diritti umani. L’11 febbraio il presidente ha firmato un decreto che impone una serie di sanzioni alla giunta militare birmana che il 1 febbraio ha preso il potere. Il linguaggio è molto deciso, e Biden parla addirittura di “minaccia per la sicurezza nazionale” degli Stati Uniti. È una scelta sorprendente che tuttavia permette di colpire in maniera dura i generali birmani e i loro interessi economici personali.

Lo stesso approccio si ritrova rispetto all’Arabia Saudita, con la scarcerazione della militante femminista Loujain al Hathloul dopo mille giorni di prigione. Ufficialmente la decisione è stata presa dall’uomo forte di Riyadh, il principe ereditario Mohammed bin Salman, ma non è difficile capire che il principe abbia voluto adeguarsi alla nuova situazione diplomatica.

Svolta spettacolare
Il consulente per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan, molto vicino a Biden, ha espresso su Twitter la sua soddisfazione per la liberazione della femminista saudita, e per mettere in chiaro le cose ha ricordato un tweet che aveva pubblicato a dicembre in occasione della condanna della donna a una pena carceraria.

All’epoca, poche settimane prima dell’insediamento di Biden, Sullivan aveva scritto che “la condanna di Loujain al Hathloul per avere semplicemente esercitato i suoi diritti universali è ingiusta e sconvolgente. L’amministrazione Biden-Harris si opporrà alle violazioni dei diritti umani ovunque siano commesse”.

I diritti umani hanno avuto grande spazio nella prima telefonata di Joe Biden al leader cinese Xi Jinping

L’espressione “ovunque vengano commesse” è molto forte, soprattutto perché in questo caso parliamo di un alleato degli Stati Uniti, che tra l’altro Donald Trump aveva difeso a spada tratta nonostante la devastante guerra in Yemen e l’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi. La svolta di Washington è dunque spettacolare.

I diritti umani hanno avuto grande spazio nella prima telefonata di Joe Biden al leader cinese Xi Jinping e in tutte le dichiarazioni del nuovo presidente nel contesto della politica internazionale.

Resta da capire se tutto questo durerà, perché l’esercizio del potere obbliga spesso a scegliere tra cattive soluzioni, in cui i diritti umani finiscono talvolta per essere sacrificati per primi.

Nelle sue memorie Barack Obama ha ricordato decisioni difficili che a volte lo hanno portato a sacrificare i suoi princìpi. Joe Biden e la sua squadra (che ne condivide i valori) affronteranno gli stessi dilemmi, soprattutto considerando che il nuovo presidente comincia il suo mandato in un momento in cui i diritti umani sono calpestati un po’ ovunque, sia dai “rivali strategici” come la Cina e la Russia sia dai presunti alleati come la Turchia, l’Arabia Saudita e Israele, con il cui governo Biden non ha avuto ancora il tempo di dialogare.

Il nuovo presidente dovrà dare prova di avere i nervi saldi per mantenere la rotta prefissata. “America is back”, ha proclamato Biden. Speriamo che torni anche un duraturo rispetto dei diritti umani.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it