11 maggio 2021 09:56

C’è stato un tempo in cui un aumento della tensione come quello a Gerusalemme e a Gaza avrebbe causato una mobilitazione diplomatica, con appelli a rilanciare il processo di pace israelo-palestinese. Ma non accade per la crisi attuale. A parte i rituali appelli alla calma, perfino il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha faticato il 10 maggio a rilasciare una dichiarazione comune, alla fine piuttosto tiepida.

Eppure se c’è un momento in cui una mediazione seria sarebbe necessaria è sicuramente questo. A Gerusalemme gli scontri sono quotidiani, e la violenza arriva fino all’interno della moschea Al Aqsa. Nel frattempo i movimenti islamisti nella striscia di Gaza alzano la posta lanciando razzi in direzione di Israele, suscitando cicliche rappresaglie sanguinose che rischiano di far esplodere la situazione.

Ancora una volta la violenza diventa l’unica valvola di sfogo, in assenza della minima prospettiva politica. Il mondo intero resta a osservare, impotente ancora prima di porsi il problema. Certo, esistono massacri e guerre anche altrove, ma questo conflitto ha una carica simbolica particolare in una città dove convivono le tre grandi religioni monoteiste, e ha ripercussioni negative all’interno delle nostre società.

Il silenzio della diplomazia
Bisogna riconoscere che l’espressione “processo di pace” ha perso qualsiasi credibilità dopo il fallimento degli accordi di Oslo, a forza di girare a vuoto sfiancando generazioni di diplomatici.

Ogni presidente degli Stati Uniti si è cimentato con la questione dopo la famosa stretta di mano tra Rabin e Arafat alla Casa Bianca il 13 settembre del 1993. L’ultimo, Donald Trump, ha provato quello che è stato definito “il deal del secolo” ma che in definitiva era solo un tentativo di comprare la rinuncia dei palestinesi a suon di dollari.

Israele si sente troppo forte, la Palestina sa di essere troppo debole

Trump ha fallito, ma ha comunque spinto i paesi del Golfo (e qualche altro) a riconoscere Israele. Con l’avvento di Joe Biden è stato subito evidente che il nuovo presidente si sarebbe guardato dall’immischiarsi nella faccenda, troppo impegnato a preoccuparsi dell’Iran o della Cina…

Sul sito del ministero degli esteri francese l’ultimo intervento relativo al capitolo “processo di pace” risale al 13 gennaio 2017. Vi possiamo leggere un testo in cui Jean-Marc Ayrault, all’epoca ministro degli esteri francese, afferma che Benjamin Netanyahu e Abu Mazen, primo ministro israeliano e presidente palestinese, sanno bene entrambi che “non esiste alternativa” alla soluzione dei due stati per i due popoli. All’epoca settanta paesi e organizzazioni si erano ritrovati a Parigi, ma non era cambiato niente.

Accadrebbe lo stesso anche oggi se solo qualcuno si prendesse la briga di organizzare un evento simile. Ma ormai nessuno intende correre più questo rischio, per paura di scontrarsi con l’intransigenza israeliana o con la disfunzionalità palestinese. Israele si sente troppo forte, la Palestina sa di essere troppo debole.

Ma la verità è che il mondo dovrebbe affrontare la crisi e agire. Troppe risoluzioni dell’Onu sono rimaste inascoltate e troppe responsabilità internazionali ignorate. Ogni giorno che passa, da trent’anni, rende la soluzione del conflitto più inestricabile, se non impossibile. Ma la situazione attuale è insopportabile.

Ancora oggi solo gli Stati Uniti potrebbero influenzare gli attori di questo scontro perpetuo. Certamente, perché un pompiere arrivi, è necessario che ci sia un incendio, con il suo corollario di sofferenze. Fino alla crisi successiva. Oggi nessuno ha il coraggio di rompere questo circolo vizioso.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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