15 luglio 2021 09:58

È la crisi più grave vissuta dal Sudafrica dopo la fine dell’apartheid, 25 anni fa: 72 morti in pochi giorni di rivolte, milioni di euro di danni e un appello all’esercito per ristabilire l’ordine nelle due principali province coinvolte.

Il detonatore di questa improvvisa esplosione di violenza è stato l’incarcerazione dell’ex presidente Jacob Zuma, condannato a 15 mesi di prigione per oltraggio alla corte. Ma questa non è l’unica spiegazione del fenomeno. Le rivolte sono il prodotto delle disuguaglianze crescenti che la fine dell’apartheid non ha saputo ridurre, e di rivalità politiche all’interno del partito al potere, l’African national congress (Anc). A questo cocktail già esplosivo dobbiamo aggiungere la pandemia, che non ha risparmiato il Sudafrica e colpisce soprattutto i più svantaggiati.

Il fatto che sia esplosa una protesta per difendere Zuma può risultare sorprendente. L’ex leader ha creato un sistema di corruzione su scala senza precedenti di cui il paese non riesce a liberarsi neanche tre anni dopo la fine del suo governo.

Il peso del passato
Perché difendere un uomo politico corrotto? Zuma appartiene alla categoria di leader che potremmo definire populisti, pronti ad alimentare le aspettative dei poveri senza però offrire alcuna soluzione. Questa strategia funziona, e non solo in Sudafrica…

Inoltre Zuma gode di una certa legittimità grazie al suo passato di prigioniero a Robben Island, dove ha trascorso dieci anni al fianco di Nelson Mandela. Questo gli garantisce un grande prestigio all’interno dell’Anc, l’ex movimento di liberazione che monopolizza il potere dal 1994.

L’ultimo aspetto da tenere presente è che Zuma è uno zulu, principale etnia del Sudafrica. È nel suo feudo storico di KwaZulu-Natal che si sono verificati i primi incidenti. Questo contesto etnico non va né sopravvalutato né ignorato.

Le rivolte, che hanno preso di sorpresa l’attuale presidente Cyril Ramaphosa, sono soprattutto il riflesso della catastrofe politica, economica, sociale e persino morale del paese, che si considera la principale potenza del continente.

Gli eredi di Mandela hanno una grande responsabilità per questa situazione. I due successori di Madiba, Thabo Mbeki e Zuma, ognuno in modo diverso, sono stati incapaci di trasformare il paese dell’apartheid a beneficio della maggioranza.

Oggi esistono due Sudafrica, che non sono più separati dal colore della pelle come ai tempi dell’apartheid ma da barriere sociali. In questi giorni è il Sudafrica dimenticato a ribellarsi.

Alla guida del paese, Cyril Ramaphosa, più onesto e competente, deve affrontare le difficoltà di un risanamento economico quasi impossibile e le lotte interne di un partito incancrenito.

Nel 1948, nel momento della vittoria dell’apartheid, lo scrittore liberale Alan Paton pubblicò Piangi, terra amata (Cry the beloved country), un libro diventato un grido di dolore contro un sistema razzista abominevole. A un quarto di secolo dalla fine dell’apartheid, molti sudafricani hanno voglia di lanciare lo stesso grido e di piangere per il loro paese, magnifico ma ancora malato.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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