26 aprile 2023 07:56

La parola “nazionalizzazione” è scomparsa da tempo dal discorso politico. È un’espressione che rimanda a epoche lontane: quella degli anni cinquanta del novecento, quando in Iran Mohammad Mossadeq osò nazionalizzare il petrolio prima di essere deposto dalla Cia e Gamal Abd el Nasser nazionalizzava il canale di Suez vedendo il suo paese subito attaccato dalle forze congiunte di Israele e delle vecchie potenze coloniali, Francia e Regno Unito.

Ma rimanda anche a quella degli anni settanta, quando Salvador Allende nazionalizzò le aziende minerarie di rame in Cile, pronunciando queste parole alle Nazioni Unite: “Abbiamo nazionalizzato il rame. Lo abbiamo fatto con il voto unanime del parlamento, dove i partiti di governo sono in minoranza. Vogliamo che tutto il mondo capisca che non abbiamo affatto confiscato le imprese estere dell’industria mineraria […]. Queste stesse aziende, che hanno sfruttato il rame cileno per anni, e nello specifico negli ultimi 42 anni, hanno incassato in questo periodo più di quattro miliardi di dollari, quando il loro investimento iniziale non superava i trenta milioni di dollari”. Sappiamo come è andata a finire: Pinochet (tralascio le nazionalizzazioni della Francia socialista del 1981, che compensò adeguatamente i proprietari delle aziende).

Guardare avanti
Proprio in Cile, oggi, la stessa parola esplosiva ritorna con Gabriel Boric, il giovane presidente di sinistra che ha appena annunciato la nazionalizzazione del settore del litio. La notizia è doppiamente significativa e dice molto sulla nostra epoca. Prima di tutto perché il litio è uno dei minerali più importanti del ventunesimo secolo, indispensabile per le batterie delle automobili elettriche e per le tecnologie dell’economia verde. Entro la metà del secolo la domanda di litio si moltiplicherà per cinquanta, dunque non sorprende che in questo contesto emergano grandi tensioni geopolitiche.

La Cina controlla gran parte dei giacimenti mondiali di litio e mantiene un semimonopolio sulla raffinazione

Inoltre bisogna prendere atto del metodo, diverso rispetto al passato. Boric, infatti, non ha seguito l’esempio di Allende, ma ha scelto la via della prudenza. Il suo annuncio non riguarda lo sfruttamento attuale del litio e dunque le aziende straniere già operative in Cile, secondo produttore mondiale del minerale, ma solo i progetti minerari futuri. Per quanto riguarda l’attività in corso il presidente cileno intende semplicemente negoziare un incremento della partecipazione dello stato.

L’annuncio è significativo anche alla luce del peso della Cina nel settore del litio, laddove le nazionalizzazioni del novecento intendevano contrastare soprattutto gli interessi statunitensi ed europei. Sqm, una delle due aziende che gestiscono lo sfruttamento del litio in Cile, è controllata in parte dall’azienda cinese Tianqi, un gigante del settore con interessi sia nell’estrazione sia nella raffinazione.

La Cina controlla gran parte dei giacimenti mondiali (dal Cile alla Repubblica Democratica del Congo) e mantiene un semimonopolio sulla raffinazione. La posta in gioco, insomma, è interamente politica e alimenta tensioni ovunque. Il Canada ha appena chiesto a un investitore cinese di ritirarsi dal capitale di un gruppo minerario locale, mentre la Repubblica Democratica del Congo è al centro delle grandi manovre geopolitiche della nostra epoca.

L’esperienza cilena va seguita con grande attenzione, perché offrirà un punto di riferimento rispetto alla capacità degli stati di riprendere il controllo delle risorse senza strappi e senza correre il rischio di rappresaglie come in passato. Boric dovrà costruire una maggioranza a sostegno del suo progetto in un parlamento instabile che già in precedenza l’ha ostacolato. In ogni caso, mezzo secolo dopo la tragica parabola di Allende, c’è un certo piacere storico nel vedere il governo cileno riprendere in mano le ricchezze del paese.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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