17 dicembre 2021 14:06

Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2010 sul numero 851 di Internazionale.

Il passato ha la forma di un tubo di scappamento. Oggi, sotto la luce artificiale della fiera, è ancora più evidente. Alcune ragazze lucidano le carrozzerie splendenti delle auto esposte, mentre le chitarre elettriche sferzano l’aria e un manager ben pettinato mostra la nuova Ford, la nuova Mazda e la nuova Lamborghini. Ogni modello è presentato come se fosse una svolta. Come un inno appassionato a un’epoca straordinaria che sta per arrivare. Il passato è un’auto che brucia benzina.

È il primo giorno del salone dell’auto di Ginevra, la più importante fiera primaverile dell’industria automobilistica. Oggi Toru Hashimoto svelerà al mondo intero il futuro dell’auto. L’ingegnere della Mitsubishi, 53 anni, è un uomo simpatico e orgoglioso. Sta in piedi vicino a una piccola auto bianca e rossa senza serbatoio. Apre il cofano e indica una scatola nera. Lì sotto si nasconde un motore da 64 cavalli silenzioso come una bicicletta. E anche pulito, perché non consuma benzina, ma elettricità.

La Mitsubishi iMiEV è la prima auto di un grande produttore che si alimenta dalla presa di corrente. Ed è la prima auto che non produce gas serra. In Giappone si può già comprare, mentre in Germania arriverà sul mercato il prossimo autunno. A Ginevra rappresenta il simbolo di un mondo nuovo, dove gli automobilisti daranno gas senza avere la coscienza sporca. E in cui non saranno solo tutti gli europei e gli statunitensi ad avere un’auto, ma anche tutti gli africani e gli asiatici. Un mondo dove le case automobilistiche continueranno ad avere successo, perché la loro crescita non sarà rallentata né dal riscaldamento climatico né dalla mancanza di carburanti fossili.

Imagine”, dice Toru Hashimoto, “immaginate”. Poi, entrando nell’iMiEV, racconta il segreto della mobilità senza limiti promessa dalle auto elettriche: l’accumulatore di energia, la batteria, che si nasconde sotto i sedili. Le auto elettriche del passato erano alimentate con batterie pesanti al piombo o al nichel che si esaurivano dopo ottanta o novanta chilometri. “Oggi sono state sviluppate nuove batterie al litio”, spiega Hashimoto. “Sono fatte con il metallo più leggero del mondo”. Grazie a queste batterie agli ioni di litio, le auto elettriche sono in grado di percorrere centinaia di chilometri con prestazioni simili a quelle delle auto a benzina.

Una favola meravigliosa
Il futuro non ha bisogno di petrolio, ma di litio. Per secoli l’umanità non ha sfruttato questo metallo. Il litio è rimasto sotto la crosta terrestre come se fosse uno scarto inutile. Oggi invece gli ingegneri di tutto il mondo sono al lavoro per progettare auto elettriche. Non solo alla Mitsubishi, ma anche nel comparto innovazione della Daimler, nel tunnel del vento della General Motors o nelle fabbriche della Renault. Presto l’industria automobilistica avrà bisogno di milioni di batterie. Il litio è diventato un tesoro dal valore inestimabile. Chi lo estrarrà? E chi si arricchirà con questo metallo?

Il deserto bianco del Salar de Uyuni si trova sull’altopiano della Bolivia. È così grande che è visibile dalla Luna, così abbagliante da far perdere il senso della distanza, così silenzioso che si sente solo il fischio del vento. Ogni tanto il silenzio è rotto dai colpi d’ala dei fenicotteri, che volano verso i margini paludosi del deserto. Per il resto c’è solo una quieta promessa.

Nel terreno di questo deserto di sale si nascondono i giacimenti di litio più grandi del mondo. Moises Chambi, un indigeno aymara, impugna un’asta di legno. Alla sua estremità è attaccata una piastra di ferro affilata. Con questo strumento Chambi solca la crosta dura del deserto di sale, come se fosse terra congelata da un inverno rigido. Suo padre lo usava prima di lui e, prima ancora, il padre di suo padre. Entrambi hanno vissuto rompendo il sale del Salar de Uyuni, a 3.653 metri d’altezza sul livello del mare.

Chambi continua a fare la loro stessa vita. Lavora nel sale dall’alba al tramonto. Lo ammucchia in montagnole alte come un essere umano. Un paio di occhiali scuri e un cappellino da baseball lo proteggono dal sole cocente. La sera i camion che caricano il sale lo portano a Colchani, un paese abbandonato sulla sponda orientale del lago prosciugato, dove viene rivenduto per essere trasportato altrove. Moises Chambi non è mai stato a Ginevra né in Giappone. In verità non si è mai mosso dal Salar de Uyuni. Nei mesi più fortunati guadagna mille boliviani (140 dollari), con cui riesce a sfamare la moglie e i suoi due figli.

Ogni tanto nel Salar de Uyuni arrivano i turisti con i fuoristrada. Per il resto le auto sono pochissime. Per raggiungere il villaggio più vicino, Chambi si fa dare un passaggio dai camion del sale. Oppure va a piedi, su strade polverose e non asfaltate.

I cileni hanno voluto spaventare i boliviani dimostrando alle aziende automobilistiche dov’è possibile trovare il litio a basso prezzo

Moises Chambi ha 23 anni. È un uomo magro, che ha trascorso metà della sua vita rompendo il sale. Il sale è il suo passato e il suo futuro. Almeno così pensava fino a poco tempo fa. “È meraviglioso. Proprio qui, dove non c’è quasi nulla, hanno trovato un tesoro”, dice ridendo. Secondo i calcoli dell’istituto indipendente per il monitoraggio geologico degli Stati Uniti, nel Salar de Uyuni si nasconde la metà di tutto il litio che si può trovare sulla Terra: 5,4 milioni di tonnellate.

In Bolivia un terzo della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. È uno dei paesi più poveri del mondo ma, allo stesso tempo, anche uno dei più ricchi. La Bolivia potrebbe diventare l’Arabia Saudita del litio. Chambi si appoggia al suo bastone di legno e dirige lo sguardo verso la superficie bianca e accecante del deserto di sale, che brilla di una luce nuova, quella del benessere. “Il litio darà da mangiare a tutta la Bolivia”, dice.

Sembra la promessa di una globalizzazione più giusta. Come una favola meravigliosa: i paesi ricchi costruiscono automobili che non hanno bisogno di benzina. In questo modo proteggono la terra dal riscaldamento climatico e portano il benessere a persone come Moises Chambi. Centinaia di anni di sfruttamento e colonizzazione, di abbondanza da una parte del mondo e povertà dall’altra, finiscono. Il sud diventa ricco perché il nord si fa carico delle sue responsabilità. Sostenibilità ecologica nel nord, sostenibilità sociale e benessere nel sud: insieme i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo salvano il mondo.

Bolivia, marzo 2009. La cittadina di Uyuni. (Fabio Cuttica, Contrasto)

Ma la favola deve diventare realtà. A Rüsselsheim, in Germania, al quinto piano della sede della Opel, un edificio di vetro splendente, Andreas Lassota parla di speranza. Dal palazzo si vede il parcheggio di un rivenditore Opel, dove l’anno prossimo si potrà comprare l’Ampera, la prima auto elettrica della casa automobilistica.

Lassota ha 46 anni. Prima di diventare un manager del settore marketing, costrui-va auto. Oggi lavora per portare l’Ampera sul mercato. Dovrà essere un successo, perché l’azienda ha bisogno di buone notizie. La Opel è uno dei simboli della crisi economica. Taglierà un quinto dei quarantottomila posti di lavoro in Europa. La casa madre General Motors ha dichiarato fallimento e ora è patrimonio dello stato americano. In queste settimane Lassota ha discusso a lungo con i manager delle altre aziende automobilistiche, con le imprese che producono energia, con le associazioni ambientaliste e con le aziende che stanno pensando di comprare auto elettriche per i loro dipendenti. L’offerta non si limita a un paio di macchine di servizio, ma comprende un’immagine aziendale migliore. Chi possiede un’Ampera è anche un nemico del riscaldamento globale. “Nei prossimi anni avremo bisogno di grandi quantità di litio”, afferma Lassota. “È una fortuna”, aggiunge, “che in Bolivia ce ne sia così tanto”.

Lassota si alza. Parla degli errori del passato e del petrolio con cui l’industria dell’auto è vissuta fin troppo a lungo. Con un pennarello disegna su un pezzo di carta una forma allungata, il Sahara, e nel mezzo del grande deserto fa un piccolo quadrato. “Con l’energia solare che colpisce questa superficie si potrebbe rifornire tutto il mondo”, afferma. Tutti avrebbero corrente elettrica e auto. E, al contrario di oggi, l’elettricità uscirebbe direttamente dalla presa di casa. “Per la Germania basterebbe tanto così”, aggiunge facendo un punto minuscolo vicino al quadrato. Il punto significa che salvare la Terra non è così difficile. Questa prospettiva lo entusiasma.

Il foglio di carta su cui Lassota ha disegnato il Sahara è appeso a un cavalletto, una flipchart. In ingleseflip significa girare. Sulla lavagna si può girare la pagina verso l’alto e piegarla all’indietro, in modo da scrivere sul foglio bianco che sta sotto quello usato. Lassota, che per anni ha venduto auto a benzina nuove, non gira la pagina ma continua a prendere appunti sul retro del foglio già scritto. “Così non spreco carta”, spiega.

Un manager del settore automobilistico si trasforma in un ambientalista. La corrente elettrica proviene dal sole. Le aziende acquistano auto elettriche. La richiesta di litio aumenta. Sembra una buona opportunità per la Bolivia, per la Opel e per tutto il mondo.

Valore aggiunto
Le grandi auto che attraversano il Salar de Uyuni con i loro carichi di litio sono sempre più numerose. Di solito sono fuoristrada che trasportano geologi giapponesi, manager coreani o diplomatici francesi. A volte i geologi trascorrono la notte nello stesso albergo, la Luna Salada, un meraviglioso edificio ai margini del deserto, fatto completamente di sale. Danno un’occhiata ai dintorni per trovare il posto migliore in cui costrui-re una fabbrica per l’estrazione di litio e ai boliviani promettono un sacco di soldi. Sembra davvero una favola meravigliosa.

Appena fuori dalla città di Potosí, a 150 chilometri dal Salar de Uyuni, nella terra rossa si erge una montagna. I conquistatori spagnoli la chiamavano cerro rico, la montagna ricca, perché un tempo era ricca di un metallo ancora più prezioso del litio: l’argento. Gli spagnoli cominciarono a estrarre il tesoro di Potosí 450 anni fa. Con il potere dei loro fucili costringevano gli indigeni a scendere nelle gallerie che avevano scavato. Gli spagnoli trovarono la ricchezza, gli indigeni la morte. Tra il 1545 e il 1825 nelle miniere d’argento morirono otto milioni d’indigeni boliviani. Potosí rappresenta il trauma storico degli stati andini. Ma il cerro rico dice molto anche del presente della Bolivia: è difficile raggiungere il benessere anche se si può contare su una risorsa come il litio.

Oggi la montagna riposa come un corpo smembrato. A sinistra e a destra del filone principale si vedono i tunnel scavati nella roccia. In alto e in basso i pozzi s’intrecciano nell’oscurità. All’inizio le impalcature di sostegno alla galleria accompagnano il cammino, ma dopo un’ora scompaiono e ci si ritrova in un labirinto di cunicoli e cavità. Nell’aria si sente l’odore di umidità, di marcio e del fumo delle sigarette di Jicardo.

Colchani, Bolivia, marzo 2009. Un operaio al lavoro nella salina. (Fabio Cuttica, Contrasto)

Jicardo, un minatore, è accovacciato in una conca argillosa e profonda, poco più grande del suo corpo gracile. Si concede una pausa per riprendersi dalla fatica delle ore passate in miniera. Non ha un orario di lavoro fisso né uno stipendio alla fine del mese. Lui e gli altri indigeni quechua che lavorano in miniera sono organizzati in una cooperativa. Ma questo non cambia le dure condizioni in cui sono costretti a lavorare. “A volte scaviamo per dodici ore”, racconta. Poi punta la luce della lampada che ha sul casco verso una busta di plastica, tira fuori un paio di foglie di coca e comincia a masticarle. Grazie al loro succo arriverà alla fine di questa giornata.

Jicardo lavora nei cunicoli di Potosí da ventisei anni. È uno dei quindicimila minatori che scavano alla ricerca di minerali e uno dei molti che spera invano di poter conquistare un po’ di benessere. Come Moises Chambi, anche Jicardo segue le orme del padre e del nonno. Sono ancora vivi, ma si sono ammalati di tubercolosi per la polvere della miniera. “Qui non cambia niente da generazioni”, spiega. “La povertà è sempre la stessa”.

Nel 1825 i boliviani cacciarono i colonialisti e la ricchezza sembrò più vicina. Nella terra rossa si potevano trovare ancora tonnellate di argento e di altri minerali. Il tesoro era diventato più modesto, ma era ancora lì e apparteneva ai boliviani. Gli europei e gli statunitensi compravano argento, stagno e piombo come faranno tra poco con il litio. Ma la modernizzazione e il benessere sono rimasti lontani dalla Bolivia. Lo stesso è successo agli altri paesi del terzo mondo ricchi di importanti materie prime, come il rame, il cotone o il cacao. Nelle gallerie di Potosí, nel pozzo dove lavora allo stremo delle forze il minatore Jicardo, si nasconde un’esperienza che seppellisce le speranze di sviluppo di Moises Chambi e fa apparire sotto una luce diversa la favola della globalizzazione buona.

Non basta essere un paese ricco di materie prime, perché queste da sole portano pochi soldi. Ci sono sempre altri paesi poveri che possono offrire argento, rame, cacao o cotone a un prezzo più basso. Non è il cacao che rende ricchi, ma il cioccolato in cui viene trasformato. Non è il rame a garantire il benessere, ma i cavi elettrici. Gli economisti chiamano valore aggiunto il processo che consiste nel trasformare una materia prima in qualcosa che si può vendere e fa guadagnare molti soldi. Nel caso del litio, il valore aggiunto sono le batterie. Per evitare che nel Salar de Uyuni si ripeta quello che è successo nel cerro rico e trasformare la favola in realtà, ai boliviani non basta vendere il litio. Devono cominciare a produrre le batterie.

Una storia tedesca
I tir corrono sull’A4 da Dresda in direzione di Görlitz. Escono all’uscita di Pulsnitz, attraversano borghi e paesi e puntano alla zona industriale della piccola città di Kamenz. Si fermano davanti al capannone di una fabbrica con la scritta Evonik Litarion e Li-Tec e consegnano il loro carico di litio.

Il materiale viene raccolto in alcuni contenitori blu con il coperchio nero. Dopo essere stato trasformato in carbonato di litio e mescolato all’ossido di nichel e di manganese, è diventato una polvere simile alla sabbia nera. Da qui si potrà costruire una batteria. Un carrello trasporta le pile di contenitori dentro la fabbrica dove gli operai, muniti di occhiali di protezione, versano la polvere in soluzioni liquide. Una macchina mescola il composto, che diventa una massa pastosa. È solo l’inizio. Alla fine del trattamento, usciranno delle celle piatte e argentate per batterie accatastate una sull’altra. Sono prodotte in una fabbrica di Kamenz, a 45 chilometri da Dresda. La fabbrica è controllata dalla casa automobilistica Daimler e dall’Evonik, un’azienda del settore chimico ed energetico. Qui si producono le batterie che alimentano il motore del modello elettrico della Smart, in vendita dal 2012. Ed è qui che il litio ha creato nuovi posti di lavoro, non in Bolivia.

Sul muro subito dopo l’entrata della fabbrica sono appese due foto incorniciate. In tutte e due si vede un gruppo di persone sorridenti. La differenza è che nella prima ci sono circa trenta persone, nella seconda cento. Ma ormai anche questa seconda foto è un’immagine del passato. Oggi la fabbrica di batterie dà lavoro a duecentoventi persone tra segretarie, amministratori, operai specializzati e ingegneri. L’anno prossimo gli impiegati saranno cinquecento. L’azienda sta crescendo così in fretta che gli spazi non bastano mai: per le riunioni gli ingegneri si servono dell’albergo Goldner hirsch a Kamenz.

In piena crisi economica nella provincia sassone c’è stato un piccolo miracolo economico: l’azienda ha aumentato enormemente il suo personale. È il genere di storie che piacciono ai politici, soprattutto in periodi difficili come questi. La ministra della formazione Annette Schavan, della Cdu, ha visitato la fabbrica di Daimler ed Evonik. Prima di lei ci sono andati anche l’ex ministro dell’ambiente Sigmar Gabriel, dell’Spd, e il governatore della Sassonia Stanislaw Tillich, della Cdu.

È una storia tedesca, e la Bolivia non compare per niente.

Il lavoro di Pimentel
La produzione di una batteria agli ioni di litio potrebbe sembrare una cosa semplice: un paio di fogli di rame spalmati di pasta nera saldati l’uno con l’altro e collegati con dei cavi. Ma appena la batteria comincia a produrre elettricità, al suo interno si scatena una tempesta elettrotermica. E bisogna controllarla. Alcune batterie di telefoni cellulari e computer portatili sono esplose. Abbiamo a che fare con formule segrete e con la caccia ai brevetti, con la densità energetica e i cicli di carica. I boliviani possono costruire una cosa simile? Sulle pendici delle Ande ci sono specialisti nella costruzione di batterie? A La Paz vive un uomo che sta pensando a come cambiare l’economia mondiale. Ha osservato il modo in cui Daimler costruisce le sue batterie in Germania. Sa che la Mitsubishi produce le batterie per la iMiEV in Giappone e che le celle per le batterie della Opel Ampera vengono dalla Corea. Così ha deciso di cambiare la situazione.

È José Antonio Pimentel Castillo. Indossa una camicia a scacchi, un giacchetto e un paio di pantaloni di stoffa. A vederlo sembra un operaio. E in effetti questa è proprio la sua intenzione. Come la maggior parte dei ministri del governo boliviano Pimentel, che ha 61 anni, è un esperto nell’arte dei gesti simbolici. I vestiti non tradiscono il suo status e lo aiutano a rimanere vicino alle persone che lo hanno votato, agli indigeni quechua e aymara, ai minatori come Jicardo e agli scavatori di sale come Moises Chambi.

Pimentel è il ministro boliviano per l’industria mineraria e la metallurgia, uno degli uomini più potenti del paese. È stato nominato da Evo Morales, uno dei capi di governo più bizzarri del mondo. Morales, un ex coltivatore di coca che ha frequentato la scuola solo per sei anni, è stato eletto presidente della repubblica il 19 dicembre 2005 diventando il primo presidente indigeno dell’America Latina.

Dall’inizio del suo governo Morales, che si definisce un socialista pragmatico, ha cominciato a cambiare l’economica boliviana. Ha nazionalizzato in parte le industrie del gas, quelle petrolifere, le compagnie aeree e le aziende che gestiscono l’acqua. Il presidente non vuole che i ricavi delle materie prime estratte in Bolivia e del lavoro dei boliviani finiscano nelle mani delle aziende straniere. Gli esperti avevano previsto la fuga di tutti gli investitori e un aumento della povertà. Ma Morales ha avuto successo. L’economia e le entrate dello stato sono cresciute, mentre il debito pubblico è diminuito. Anche il Fondo monetario internazionale, tutt’altro che socialista, ha lodato il governo boliviano per la sua “politica economica”.

Morales è diventato l’uomo in grado di dare coraggio a tutta l’America Latina. José Antonio Pimentel è una persona di sua fiducia e il custode del tesoro di litio. Ha un ufficio sobrio al quattordicesimo piano del centro per la comunicazione di La Paz. Il rumore dei clacson e dei motori arriva fin quassù. “Abbiamo piani ambiziosi”, spiega. Prima di diventare ministro, ha insegnato diritto del lavoro e storia del movimento sindacale. Conosce la paura dei boliviani di essere sfruttati. “Il passato non si ripeterà”, assicura. Il nord del mondo non si arricchirà di nuovo con le risorse del suolo boliviano.

Dal suo piccolo ufficio Pimentel porta avanti una specie di battaglia di resistenza. Negli ultimi mesi si sono presentati in continuazione eleganti uomini d’affari per discutere con lui di contratti. L’incaricato della casa automobilistica Mitsubishi, l’azienda mista giapponese Sumitono, il produttore di batterie coreano Lg Chem, l’impresa mista francese Bolloré: sono tutti interessati a comprare il litio del Salar de Uyuni.

Vince il più forte
All’inizio il presidente Evo Morales rispondeva così alle richieste che arrivavano dall’estero:paso a paso, un passo alla volta, il paese sarà in grado di mettere in moto la produzione industriale di litio. Ci saranno impianti di estrazione boliviani, fabbriche di batterie boliviane e auto elettriche boliviane. L’illusione era figlia della sopravvalutazione delle proprie capacità.

Oggi Pimentel usa altre parole. Con calma spiega che ovviamente la Bolivia, un piccolo paese senza un’industria nazionale, ha bisogno degli investitori stranieri per produrre le batterie. Per questo le imprese straniere devono avere la possibilità di lavorare nel paese, però collaborando con i boliviani: oltre ai soldi, devono pagare con il sapere e con le loro conoscenze tecniche. Devono mostrare ai boliviani come si fanno le batterie e devono costruire le fabbriche insieme a loro.

Secondo Pimentel, il crollo delle borse ha rivelato fino a che punto il mondo è vulnerabile e il nord e il sud sono dipendenti. Non è evidente che il riscaldamento climatico si può fermare solo unendo le forze? La svolta ecologista delle auto elettriche nel nord del mondo non offre forse la possibilità unica di realizzare una svolta sociale nel sud del mondo, che porti sviluppo e benessere alla maggioranza della popolazione? Non potrebbe cominciare da qui una fase migliore della globalizzazione?

Sembra di sentire ancora la favola meravigliosa sull’economia buona. Ma Pimentel sa che si tratta di una guerra di potere: i paesi industrializzati vogliono avere il litio pagando il meno possibile, mentre i boliviani vogliono guadagnarci. Alla fine vincerà il più forte.

La sfida del Cile
Steffen Haber è volato in classe economica, come sempre. Di questi tempi ci si deve accontentare. Il suo orologio segna pochi minuti dopo le nove. Per fortuna l’aereo è atterrato in orario: quando la cancelliera lo invita non può arrivare in ritardo.

È lunedì mattina, 3 maggio. Angela Merkel ha chiamato a raccolta nella capitale tedesca i top manager delle aziende automobilistiche e delle imprese del settore energetico, dei produttori di macchinari e delle industrie chimiche. Con loro ci sono scienziati, sindacalisti e dirigenti. In tutto quattrocento persone partecipano al vertice per capire come la Germania può raggiungere la vetta mondiale della produzione di automobili elettriche. Il paese dell’auto non può perdere posizioni solo perché all’improvviso le macchine smettono di funzionare a benzina.

Haber si affretta verso l’uscita dell’aeroporto per prendere un taxi. Ha 46 anni, è un uomo robusto e ha un dottorato in chimica. Non ha mai costruito un motore né progettato una carrozzeria. Eppure è diventato un uomo piuttosto importante per l’industria dell’auto: è lui che vende il litio. Oggi solo tre imprese estraggono il litio in grandi quantità. Una di queste è la Chemetall di Francoforte sul Meno, che impiega 2.700 persone in una trentina di controllate e associate in giro per il mondo. Haber dirige il settore che si occupa degli affari internazionali con il litio. Quando parla del tesoro del Salar de Uyuni non nomina né la sostenibilità sociale né quella ambientale. Spiega che si tratta di struttura dei costi, di potere e di concorrenza al ribasso. Ma il problema è soprattutto la pioggia. Finora quasi tutto il litio presente sul mercato mondiale proviene dai laghi salati prosciugati del Sudamerica, in Cile e in Argentina. In tutti e due i paesi le imprese scavano il sale, lo mescolano con l’acqua e la soda, filtrano la parte liquida e la lasciano evaporare. Quello che rimane è il carbonato di litio, la materia prima delle batterie.

Il deserto di Atacama in Cile, distante solo 175 chilometri in linea d’aria dal Salar de Uyuni, è il più secco del mondo. Invece in Bolivia, nel Salar de Uyuni, piove regolarmente. “Con la pioggia il processo d’evaporazione richiede più tempo”, spiega Haber. Più tempo significa anche costi di produzione due o tre volte più alti. E quindi possibilità ridotte sul mercato internazionale.

Oggi l’impresa di estrazione di litio più grande del mondo è la cilena Sqm. Lo scorso autunno l’azienda ha abbassato a sorpresa i prezzi del carbonato di litio, anche se poteva contare su un numero sufficiente di clienti. La Sqm ha rinunciato volontariamente a una parte dei suoi profitti. La spiegazione è semplice: i cileni hanno voluto spaventare i boliviani dimostrando ai produttori di batterie e alle aziende automobilistiche dove si può trovare il litio a basso prezzo. Il loro messaggio era: “Comprate da noi invece d’investire in Bolivia”.

Haber scende in Französische straße, dove c’è la sede centrale berlinese della Deutsche Telekom, luogo dell’incontro. La cancelliera e i ministri discuteranno per due ore con i presidenti dei consigli d’amministrazione delle aziende presenti. Angela Merkel fa notare che all’interno del secondo pacchetto di aiuti all’economia in crisi, il governo ha messo a disposizione 500 milioni di euro per il sostegno alla produzione di auto elettriche. Si discute di batterie per quasi la metà dell’incontro. Nessuno accenna alla Bolivia.

Forse è ancora troppo presto. Pimentel ha sottolineato che “il problema del riscaldamento climatico è un argomento d’interesse globale”. Ma avrebbe potuto dire: “Il riscaldamento globale è la nostra grande speranza”. Se le calotte polari si scioglieranno più in fretta del previsto, se gli uragani spazzeranno via la Florida e se metà dei Paesi Bassi rischieranno di sprofondare sotto il mare, allora la pressione sull’industria dell’auto e sulla politica aumenterà. Non sarà più così determinante che le auto elettriche costino dieci o quindicimila euro in più di quelle a benzina. Ci penseranno i governi a pareggiare il conto, trasformando gli incentivi alla rottamazione in incentivi all’acquisto di auto elettriche. Come ha annunciato uno dei top manager presenti al vertice in Germania, il mondo avrà bisogno di più macchine alimentate a energia elettrica. E di più litio, a qualsiasi condizione.

La catastrofe ecologica potrebbe trasformarsi in una grande opportunità per la Bolivia. Le imprese del nord avranno bisogno di materie prime e Pimentel stabilirà le condizioni del contratto. Alla fine i boliviani potrebbero essere i più forti.

Un’altra Potosí
L’ingegnere Maritza Vallejo deve aiutare il suo paese a conquistare il potere di cui ha bisogno. Protetta da una tuta e un cappello di lana, lavora con i suoi colleghi nel sole accecante del Salar de Uyuni. Gli uomini spaccano la superficie dura del deserto con una macchina speciale. Poi tagliano la crosta in blocchi quadrati, che usano come mattoni nella costruzione di una vasca di dieci metri di lunghezza e dieci di larghezza. “Sono orgogliosa di lavorare al sogno boliviano”, confida Vallejo.

Pimentel le ha chiesto di andare sulla costa meridionale del deserto di sale per costruire una fabbrica di carbonato di litio. Il ministro vuole dimostrare alle aziende straniere che i boliviani, se sono costretti, se la cavano anche senza il loro aiuto. Questo gli darebbe più forza nelle trattative.

Anche Jaime Claros dell’università di Potosí e Wolfgang Voigt dell’università di Friburgo conoscono le debolezze del litio boliviano rispetto alla concorrenza. Lavorano allo sviluppo dei cosiddetti coni per l’evaporazione, degli strumenti per accelerare il processo di essiccazione del litio. Provano a sconfiggere la pioggia e ad abbassare i costi. E combattono per valorizzare il tesoro dei boliviani.

La sera, dopo molte ore passate sotto la luce abbagliante riflessa dal sale, Maritza Vallejo e i suoi colleghi tornano nella loro casa senza intonaco. A volte giocano a calcio sul campo polveroso accanto al cantiere, dove si costruirà la fabbrica di litio. Per ora ci sono solo un paio di uffici e i dormitori. I soldi sono pochi e si procede a piccoli passi.

Il nord del mondo può ridere del modo in cui il sud ha fiducia nelle sue forze. Ma in Bolivia Pimentel, seduto nel suo ufficio, continua a ripetere una frase di sole sei parole che descrive bene la determinazione di un’intera nazione. La Bolivia non permetterà che altri paesi sfruttino di nuovo il suo tesoro: “Non ci sarà un’altra Potosí”, assicura.

Più ricchi
Con un clic appare una foto di Dieter Zetsche. Zetsche ride. Al suo fianco c’è un uomo con i capelli neri. Sembra arabo. Zetsche gli stringe la mano. Ancora un clic. Thomas Bayreuther fa sparire l’immagine dell’amministratore delegato della Daimler dallo schermo. “Gli Emirati Arabi”, spiega, “non sanno per quanto tempo basterà il petrolio. Per questo hanno investito sulla Daimler, con la clausola che l’azienda costruisca auto elettriche”.

Bayreuther, con vestito e occhiali neri, parla in una sala conferenze di Stoccarda. Di fronte a lui ci sono alcuni amministratori di capitali, che investono i soldi dei ricchi. Sono alla ricerca di titoli che possano fruttare buone rendite. Una banca privata li ha invitati per ascoltare la presentazione di Bayreuther.

Bayreuther ha quarant’anni. Ha fatto il broker a Francoforte, Londra e Monaco. Ai lettori della rivista Focus Money ha spiegato come avrebbe investito i suoi soldi. I suoi consigli hanno fatto registrare una rendita del 29 per cento annuo. Oggi Bayreuther dirige una sua finanziaria. Ha creato un fondo che investe solo in imprese che guadagnano grazie alle auto elettriche: industrie per l’estrazione del litio, produttori di batterie, costruttori d’auto. L’ha chiamato Future mobility, mobilità del futuro.

Gli investitori non hanno ancora scoperto il fondo di Bayreuther. I costruttori di auto guadagnano con i motori a scoppio. Ma quando il futuro si muoverà veramente con l’energia elettrica, allora Thomas Bayreuther farà in modo che non si arricchiscano solo le aziende automobilistiche e i produttori di batterie, ma anche gli investitori privati che hanno abbastanza soldi da investire.

A migliaia di chilometri dal deserto di sale della Bolivia, il litio potrebbe rendere molti ricchi ancora più ricchi. Anche se non avranno mai avuto il tesoro del Salar de Uyuni.

(Traduzione di Matteo Alviti)

Da sapere
Le riserve boliviane
  • Il 19 dicembre 2005 Evo Morales, ex leader cocalero e indigeno aymara, viene eletto presidente della repubblica. Nel 2009 viene rieletto per un secondo mandato con più del 60 per cento dei voti.
  • Alla fine del 2006 Morales completa il programma di nazionalizzazione del gas avviato a maggio. Lo stato assume il controllo delle operazioni delle aziende energetiche straniere presenti nel paese. Secondo Morales, le risorse della Bolivia, in particolare il litio, non devono essere depredate dalle multinazionali.
  • La metà delle riserve mondiali di litio si trova nel Salar de Uyuni, in Bolivia. Il litio è un metallo alcalino usato per le batterie, per i farmaci stabilizzatori dell’umore e per le armi termonucleari.

Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2010 sul numero 851 di Internazionale. Era uscito sul settimanale tedesco Die Zeit.

Internazionale ha una newsletter che racconta cosa succede in America Latina. Ci si iscrive qui.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it